Dalla via Francigena ai sentieri del Dürer, arriva il Portale dei Cammini


Da quelli dedicati ai santi, a quelli dei briganti, fino al cammino di Dante esiliato o al sentiero del pittore tedesco Albrecht Dürer. E' ilportale www.camminiditalia.it , presentato al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma, alla presenza del ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Dario Franceschini, del coordinatore Commissione Turismo e Industria Alberghiera della Conferenza delle Regioni e Province Autonome, Giovanni Lolli, e al direttore generale del Turismo del Mibact, Francesco Palumbo.
Si tratta della prima mappatura ufficiale dei cammini d’Italia, un contenitore di percorsi e itinerari pensato come una rete di mobilità slow che al momento contiene oltre 40 cammini: ci sono quelli dedicati ai santi, come i cammini francescani, laureatani e benedettini, quelli dedicati ai briganti come il sentiero che attraversa l’Aspromonte, il cammino di Dante che attraversa i luoghi dove Dante visse in esilio e scrisse la Divina Commedia, il sentiero della Pace che ripercorre luoghi e memorie della Prima Guerra Mondiale, e ancora la Via Appia, la Via Francigena, la Via degli Dei, il cammino di San Vicinio, la Via degli Abati, il sentiero Liguria, la Via Romea Germanica, il Sentiero del Dürer e tanti altri.
"Sempre più persone partono in viaggio cercando qualcosa in più di una semplice vacanza. L’Atlante dei Cammini - ha dichiarato Franceschini - è pensato per quei viaggiatori che desiderano vivere un’autentica esperienza nel nostro Paese, immergendosi a passo lento in quel patrimonio diffuso fatto di arte, buon cibo, paesaggio e spiritualità che costituisce il carattere originale e l’essenza dell’Italia".
www.camminiditalia.it è dunque uno strumento per viaggiatori e turisti, una vera e propria infrastruttura intermodale di vie verdi in cui si potrà scegliere di muoversi lungo l’Italia a piedi, in bicicletta, a cavallo o con altre forme di mobilità dolce sostenibile,promuovendo una nuova dimensione turistica. L’idea di realizzare un portale unico dedicato ai cammini è nata durante l’anno Nazionale dei Cammini 2016 proclamato con una direttiva del Mibact e che ha visto insieme impegnati Stato, Regioni, Comuni, Enti locali, pubblico e privato per valorizzare 6600 chilometri di cammini naturalistici, religiosi, culturali e spirituali che attraversano l’intero Paese, una fetta d’Italia poco conosciuta, ma fondamentale nell’offerta del turismo lento italiano.
Il Comitato, composto da ministero, regioni, province autonome e Anci, ha elaborato i criteri per ammettere nel portale dei Cammini i singoli itinerari proposti dalle Regioni stesse. Il Comitato tuttora continua a vagliare ulteriori, nuove proposte avanzate da regioni e province autonome. Il portale www.camminiditalia.it fornisce, per la prima volta, una visione di insieme dei percorsi che attraversano il nostro Paese, e permette di conoscere le connessioni tra i vari itinerari con nuove modalità di percorribilità.
L’implementazione e lo sviluppo di nuovi modelli di fruizione e gestione sostenibile garantiranno e favoriranno l’integrazione ambientale – paesaggistica, con attività agricole, artigianali e turistico-culturali del sistema Paese così come indicato nel Piano Strategico del Turismo 2017-2022.
"L'esperienza dei Cammini d'Italia ha avuto il merito di esaltare lo spirito collaborativo tra il ministero del Turismo e le Regioni italiane in un rinnovato clima di confronto e crescita comune. Partendo da questa importante esperienza - ha dichiarato Lolli - le Regioni sono tornate a recitare un ruolo di primo piano nella gestione e organizzazione dell'offerta turistica de mercato italiano".
"Il Comitato, di cui fanno parte il Mibact, le regioni e l’Anci, ha identificato i Cammini d’Italia, al fine di realizzare l’Atlante Digitale, uno strumento dinamico e in costante aggiornamento. Tra gli undici requisiti necessari per rientrare nell’Atlante - ha spiegato Palumbo - sono di particolare importanza la fruibilità dei percorsi, la segnaletica orizzontale e/o verticale, la descrizione online della tappa, i servizi di alloggio e ristorazione entro i 5 km dal Cammino, la manutenzione del percorso garantita dagli Enti locali, la georeferenziazione ed un sito in cui sono raccolte le principali informazioni per i viaggiatori".
adnkronos

Il 2019 sarà l'anno del Turismo lento


Il 2016 è stato l'anno nazionale dei cammini, il 2017 l'anno nazionale dei borghi e il 2018 sarà l'anno del cibo italiano. Per il 2019, anticipa il ministro dei Beni culturali e turismo, Dario Franceschini, in occasione della presentazione del nuovo portale dei cammini del Mibact, si tratterà dell'anno del turismo lento.
E' da oggi online l’Atlante digitale dei cammini, il nuovo portale del Mibact dedicato a chi vuole viaggiare in Italia a passo lento.
Si tratta della prima mappatura ufficiale dei cammini d’Italia, un contenitore di percorsi e itinerari pensato come una rete di mobilità slow che al momento contiene oltre 40 cammini: ci sono quelli dedicati ai santi, come i cammini francescani, laureatani e benedettini, quelli dedicati aibriganti come il sentiero che attraversa l’Aspromonte, il cammino di Dante che attraversa i luoghi dove Dante visse in esilio e scrisse la Divina Commedia, il sentiero della Pace che ripercorre luoghi e memorie della Prima Guerra Mondiale, e ancora la Via Appia, la Via Francigena, la Via degli Dei, il cammino di San Vicinio, la Via degli Abati, il sentiero Liguria, la Via Romea Germanica, il Sentiero del Dürer e tanti altri. 
www.camminiditalia.it è dunque uno strumento per viaggiatori e turisti, una vera e propria infrastruttura intermodale di vie verdi in cui si potrà scegliere la possibilità di muoversi lungo l’Italia a piedi, in bicicletta, a cavallo o con altre forme di mobilità dolce sostenibile, promuovendo una nuova dimensione turistica.
L’idea di realizzare un portale unico dedicato ai cammini è nata durante l’anno Nazionale dei Cammini 2016 proclamato con una direttiva del Mibact e che ha visto insieme impegnati Stato, Regioni, Comuni, Enti locali, pubblico e privato per valorizzare 6600 chilometri di cammini naturalistici, religiosi, culturali e spirituali che attraversano l’intero Paese, una fetta d’Italia poco conosciuta, ma fondamentale nell’offerta del turismo lento italiano.
Il Comitato, composto da Ministero, Regioni, Province autonome ed ANCI, ha elaborato i criteri per ammettere nel Portale dei Cammini i singoli itinerari proposti dalle Regioni stesse. Il Comitato tuttora continua a vagliare ulteriori, nuove proposte avanzate da regioni e province autonome.
Tra gli undici requisiti necessari per rientrare nell’Atlante, sono di particolare importanza la fruibilità dei percorsi, la segnaletica orizzontale e/o verticale, la descrizione online della tappa, i servizi di alloggio e ristorazione entro i 5 km dal Cammino, la manutenzione del percorso garantita dagli Enti locali, la georeferenziazione ed un sito in cui sono raccolte le principali informazioni per i viaggiatori.
Sempre più persone partono in viaggio cercando qualcosa in più di una semplice vacanza. L’Atlante dei Cammini - commenta Dario Franceschini - è pensato per quei viaggiatori che desiderano vivere un’autentica esperienza nel nostro Paese, immergendosi a passo lento in quel patrimonio diffuso fatto di arte, buon cibo, paesaggio e spiritualità che costituisce il carattere originale e l’essenza dell’Italia”.
Il 2019 Anno del turismo lento sarà un ulteriore modo dunque per valorizzare i territori italiani meno conosciuti dal turismo internazionale e rilanciarli in chiave sostenibile favorendo esperienze di viaggio innovative, dai treni storici a alta panoramicità, agli itinerari culturali, ai cammini, alle ciclovie, ai viaggi a cavallo.
Il Portale fornisce, infatti, una visione di insieme dei percorsi che attraversano il nostro Paese, e permette di conoscere le connessioni tra i vari itinerari con nuove modalità di percorribilità. 
tratto da hospitality-news.it

I monaci Vallombrosani di San Lanfranco e le attività culturali

Domenica 12 novembre alle 15.30, l'Associazione Amici di Lanfranco terrà presso il Teatro San Riccardo Pampuri della Domus Pacis, in Via San Lanfranco Beccari a Pavia, un incontro su I monaci Vallombrosani di San Lanfranco e le attività culturali.
La conferenza avrà come relatore il professor Gualtiero Tacchini, esperto della cultura dei monaci vallombrosani, fondatori del complesso abbaziale di San Lanfranco.
La Congregazione vallombrosana è un ramo dell’ordine dei monaci benedettini fondato da san Giovanni Gualberto nel 1039, con sede principale l’abbazia di Vallombrosa, in provincia diFirenze.
Dal 1039 al 1330 la diffusione dell’ordine in Italia ed Europa, sotto la guida dell'abate maggiore, fu simboleggiata dall'annuale raduno a Vallombrosa dei superiori e dallo scambio di monaci nelcentro e nord Italia fino alla Sardegna.
Nel 1500 l'epoca della commenda, che vedeva la nomina come abate di un monastero di un estraneo da parte della sede apostolica, fu un periodo di profonda decadenza sia per le comunità che per la congregazione e, solo dopo il Concilio di Trento avvenne una ripresa spirituale e un grande sviluppo economico che lasciò una traccia profonda nelle abbazie vallombrosane.
Con le successive soppressioni attuate dalle autorità statali, il 10 ottobre 1810 per la prima volta i monaci furono costretti ad abbandonare  l'abbazia di Vallombrosa e vi tornarono solo nel 1818 con15 sacerdoti e 16 fratelli.
Inoltre i monaci vallombrosani persero anche il monastero di San Michele presso la badia diPassignano, che nella cripta conserva i resti di san Giovanni Gualberto in un antico reliquario.
Nel 1866, come conseguenza delle leggi italiane riguardanti la soppressione degli istituti religiosi, ai monaci venne tolta nuovamente l'abbazia di Vallombrosa, che nel 1869 divenne la sede del primo Istituto Forestale d'Italia.
I monaci dell’abbazia rimasero a Pescia, in provincia di Pistoia, fino a quando nel 1949 non tornarono a Vallombrosa dopo la concessione del monastero alla congregazione da parte delloStato.
Dal 1986 il complesso è di nuovo dei monaci che l’hanno riportato agli antichi splendori.
Da vedere sono il refettorio monastico con un’immensa Ultima cena dipinta dal Ghirlandaio e la cucina, ancora con gli arredi originari del Quattrocento.
L'evento è nel contesto del progetto di turismo religioso Crocevia d’Europa tra Pavia, Lodi, Milano, Como, realizzato grazie al contributo di Regione Lombardia e Unioncamere Lombardia.
L'ingresso sarà libero fino a esaurimento dei posti ed eventuali offerte verranno impiegate per proseguire i restauri dell'Abbazia di San Lanfranco in Pavia.
paviafree.it

Tra le meraviglie dell'Umbria. Sulle orme di Francesco



Un libro illustrato del Touring illustra il Cammino sulle tracce del Santo. Tra foreste secolari, colline coperte di ulivi e città raccolte sui Colli. L'itinerario, e l'opera, nella sintesi dell'autore
Foreste secolari, colline coperte di olivi, rupi aspre e selvagge, città raccolte sui colli. L’Umbria di oggi non è molto diversa dalla terra dove, esattamente otto secoli fa, si mossero i passi di Francesco. Circa 15 anni fa, grazie alla passione e al lavoro di appassionati dei cammini e della regione Umbria, è nata la Via di Francesco: un percorso che, in 22 tappe, collega il santuario della Verna a Roma, toccando tutti i luoghi fondamentali della storia francescana. Da Sansepolcro a Gubbio, da Assisi a Trevi, Spoleto e ai monasteri della valle di Rieti, questo viaggio di più di 430 chilometri attraversa paesaggi molto diversi, che portano dal silenzio delle foreste dell’appennino al mare di ulivi argentati della Valle Umbra, fino ai piedi delle rocce del Terminillo e ai dolci colli della Sabina. Lungo la via, s’incontrano eremi, alberi monumentali, monasteri, chiesette e castelli diruti dove la suggestione della predicazione, o dell’isolamento del patrono d’Italia sembrano essere ancora oggi ben presenti e forti nell’aria, nel rumore dell’acqua che scorre, nel canto degli uccelli. Chi ha percorso il ben più celebre Cammino di Santiago qui si troverà certamente a casa, anche se va detto che la Via di Francesco è a tratti decisamente più faticosa dello storico itinerario spagnolo a causa dei dislivelli molto più accentuati e dei saliscendi necessari per muoversi attraverso le colline umbre.

Comunque, se affrontato con un certo allenamento, la giusta tranquillità e un’attrezzatura adeguata, la via di Francesco è un itinerario ragionevole e alla portata di chiunque abbia una certa dimestichezza con il camminare nella natura. In caso di stanchezza o problemi fisici, va ricordato che è facile spezzare il tragitto oppure concedersi un giorno di sosta in più, per poi avere la possibilità di riprendere il cammino con rinnovata lena ed entusiasmo. Questo percorso non presenta difficoltà particolari né problemi di segnaletica (anche se va detto che il tratto tra Rieti e Roma è decisamente meno segnalato e curato rispetto alle tappe umbre e laziali precedenti, anche se la situazione sta migliorando) e basta un po’ di attenzione per riuscire, giorno dopo giorno, a raggiungere tranquillamente la meta prefissata. L’importante, come sempre accade lungo cammini di questa lunghezza e di pari impegno, è dosare le forze e lasciare a casa la fretta: la lentezza e la costanza saranno certamente le due qualità che la via richiederà al camminatore. Come per i cammini più antichi e strutturati, anche su questo percorso esiste una Credenziale, cioè una specie di “passaporto” su cui il camminatore/pellegrino potrà far mettere un timbro ogni sera, come testimonianza del viaggio compiuto, per poi ricevere, una volta ad Assisi oppure a Roma, il Testimonium, cioè l’attestato ufficiale che certifica in latino il viaggio compiuto.
 
Dalla nascita di questo itinerario a oggi molte cose sono cambiate tra le valli, i borghi e i colli della Toscana, dell’Umbria e del Lazio. La rete di accoglienza – che può essere “povera” per chi si accontenta di un letto a castello in una foresteria oppure più normalmente turistica tra alberghi, bed & breakfast o agriturismi – si è estesa sempre più. Così come la possibilità di fare la spesa, riposarsi con uno spuntino o sedersi alla tavola di una trattoria sul far della sera. I numeri e le statistiche di quest’ultimo anno fotografano infatti una situazione in rapida evoluzione: nel Sacro Convento di Assisi più di 7.000 camminatori hanno ritirato negli ultimi mesi il loro Testimonium e quindi, se sommiamo a questi anche tutti i pellegrini diretti a Roma, non è azzardato parlare di circa 15.000 presenze sulla via. Un numero non da poco, in grado di cambiare decisamente la vita dei più piccoli tra i borghi attraversati dall’itinerario francescano, e di rendere familiari a tutti le figure dei camminatori che, sul far della sera, passeggiano nei centri storici con i loro sandali e le facce scottate dal sole. Da notare anche la notevole presenza di camminatori stranieri: americani, tedeschi, brasiliani, francesi e inglesi costituiscono una parte importante del flusso di pellegrini, grazie anche alla presenza sul mercato di guide escursionistiche in inglese e tedesco. I tratti più battuti dell’itinerario sono certamente le tappe da Gubbio a Valfabbrica e da qui ad Assisi, che si raggiunge attraversando il maestoso bosco gestito dal FAI ai piedi della basilica, poi la salita verso l’Eremo delle Carceri e la lunga camminata sulle pendici del monte Subasio, che conduce a Spello e a Trevi. Senza dimenticare il percorso ad anello che, nella valle del Velino e a due passi da Rieti, congiunge in due o tre giorni di cammino i conventi francescani di Fonte Colombo, Greccio, Poggio Bustone e La Foresta.


Le stagioni più adatte a una camminata di questo tipo sono la primavera e l’inizio dell’autunno, già che in estate il caldo può rendere faticoso il viaggio e l’inverno porta il freddo e spesso la neve alle quote più elevate. Non bisogna sottovalutare un cammino di questa portata: l’attrezzatura di chi si mette in viaggio dovrà essere adeguata, con scarpe da trekking, un buono zaino, giacche in pile e in goretex contro il maltempo, bastoncini telescopici da trekking per chi è abituato ad utilizzarli. E soprattutto con un po’ di allenamento, perché trovarsi a camminare 5 o 6 ore al giorno, per un periodo abbastanza lungo, sarà certamente faticoso e richiederà all’organismo uno sforzo di adattamento a un ritmo di vita particolare e inconsueto. Sulla Via di Francesco sono state pubblicate diverse guide, tra cui “La Via di Francesco” di Gianluigi Bettin e Paolo Giulietti (ed. San Paolo), “Di qui passò Francesco” di Angela Serracchioli (ed. Terre di Mezzo) e il taccuino/guida dedicato per camminatori alla via dal Touring Club Italiano. Molte le informazioni utili che si possono trovare in rete sul sito www.viadifrancesco.it, mentre www.francescosways.eu offre una serie di possibilità di alloggio, pacchetti organizzati di diversa durata o il servizio di trasporto dei bagagli da un punto tappa al seguente.
 
Libro illustrato. La Via di Francesco, di Fabrizio Ardito ed edito da Touring, è un volume fotografico dedicato al cammino francescano e alle sue varianti in Toscana, Umbria e Lazio. Il libro è stato realizzato in collaborazione con la Regione Umbria e Sviluppumbria, è in libreria dal 15 ottobre. Pag. 160, 29,90 euro.

Repubblica Viaggi


"Il mondo è ancora tutto da esplorare. E da raccontare"


«Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che basta a stesso. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi disfa...». Così il fotografo e scrittore svizzero Nicolas Bouvier in quel prezioso marchingegno letterario, troppo poco conosciuto, che è "La polvere del mondo" (Diabasis 2011).


Il viaggio che ha fatto William Dalrymple, l’interprete più consapevole dell’ultima generazione di scrittori di viaggio del Novecento, è avvenuto nel 1986, non lontano dalle rotte seguite trent’anni prima dallo stesso Bouvier, che aveva raggiunto l’Afghanistan partendo da Belgrado. «Era il 1986 ed ero ancora uno studente all’Università di Cambridge», racconta all’Espresso Dalrymple, nato in Scozia nel 1956, ma residente da molti anni in India.



«Fu allora che, inaspettatamente, ottenni una borsa di studio per intraprendere uno splendido viaggio sulle orme del mio eroe, Marco Polo». Riceve una somma consistente, 700 pound, che gli permette di raggiungere la Mongoliapartendo da Gerusalemme. «Rimane il viaggio più bello e importante della mia vita. Tre mesi ad attraversare enormi territori asiatici, mosso dalla certezza - quella di chi ha 21 anni - di essere invincibile».



Il viaggio lo conduce da un estremità all’altra dell’Asia. E gli cambia per sempre la vita. Poco dopo essere rientrato in Inghilterra, Dalrymple riceve un invito dal pittore Derek Hill. «Un mio amico vuol vedere i reperti che hai trovato in Mongolia», gli anticipa Hill. L’amico è Bruce Chatwin. «Avevo letto il suo libro sulla Patagonia, che custodivo come un tesoro personale. In quel periodo stavo leggendo tutta la letteratura di viaggio, ma trovavo molti resoconti troppo cerebrali. Chatwin era diverso.



E a differenza degli altri miei eroi letterari era lì, in carne e ossa, di fronte a me». L’incontro con l’autore di "Che ci faccio qui?" è ancora nitido nella memoria di Dalrymple. «Ricordo Chatwin come un ottimo conversatore, una mente brillante. Mi affascinava con la sua conoscenza, i suoi modi di fare disinvolti, le sue storie insolite. Pur non essendo gay, ne riconoscevo la carica seduttiva, il fascino. Volevo essere come lui». Anche nella scrittura.



Dal lungo viaggio verso la Mongolia, nel 1989 William Dalrymple ricava un libro, tradotto in italiano come "Il Milione. Da Gerusalemme a Xanadu sulle orme di Marco Polo" (Rizzoli 1999). Viene accolto con entusiasmo. Sulla rivista The Spectator lo recensisce lo scrittore Patrick Leigh Fermor, che nel 1933, appena diciottenne, aveva lasciato l’Inghilterra per raggiungere a piedi Costantinopoli, con la vaga ambizione di «vivere come un pellegrino o un palmiere, o un chierico vagante».



Un’autorità in ambito letterario, Leigh Fermor contribuisce a trasformare Il Milione in un libro di successo, descrivendolo come «erudito e comico», «toccato dagli spiriti di Alexander Kinglake, Robert Byron ed Evelyn Waugh». Mostri sacri della letteratura inglese di viaggio.



William Dalrymple racconta all’Espresso che all’epoca guardava con venerazione soprattutto a Robert Byron. «Come in tutte le opere prime, nel mio libro era evidente l’ombra dei miti letterari. C’erano ovviamente i lavori di Bruce Chatwin, e poi A Short Walk in the Hindu Kush di Eric Newby e La via per l’Oxiana di Robert Byron, un testo che amo molto». Anche Bruce Chatwin venerava il testo di Robert Byron (1905-1941), «il gentleman, studioso ed esteta inglese che morì annegato nel 1941 per il siluramento della sua nave, mentre era diretto verso l’Africa occidentale». Definiva La via per l’Oxiana (Adelphi 1993) «un’opera di genio», «un testo sacro», e proprio seguendo con «ossequio servile» l’itinerario di Byron da Venezia a Kabul, Chatwin nel 1962, a 22 anni – «sei anni prima che gli hippies lo rovinassero» –, si reca in Afghanistan.



Dove Byron aveva trovato «finalmente l’Asia senza complessi d’inferiorità». E dove Chatwin cerca invece «i nomadi che camminano avanti e indietro». William Dalrymple è forse l’ultimo erede di questa tradizione di viaggiatori e scrittori. Amanti ed esploratori di quella vasta area del mondo, dal Caucaso all’India, in cui la qualità della vita si misura dalla dolcezza dei meloni. Una tradizione fortunata, anche in termini commerciali. «La mia fortun a», spiega all’Espresso, «è di aver pubblicato il primo libro quando era in corso un vero e proprio revival della letteratura di viaggio, con autori come Eric Newby, Paul Theroux e ovviamente Bruce Chatwin che avevano fatto rinascere il genere». Rendendolo commercialmente florido. «La gente comprava quel genere di libri. Potevi farne una professione, come decise di fare Chatwin. Paul Theroux, con il suo The Great Railway Bazaar, aveva venduto 1 milione e mezzo di copie!».



Una vera e propria età dell’oro della letteratura di viaggio. «È durata circa 15 anni, dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso agli anni Novanta. The Great Railway Bazaar di Theroux è del 1975, e inaugura quella stagione. In Patagonia di Chatwin è del 1977, così come Tempo di regali di Leigh Fermor. Il mio primo libro, Il Milione, è del 1989: sono riuscito a cavalcare l’ultima onda». Ormai infranta. Anche a causa del successo commerciale. «Il grande appetito per la letteratura di viaggio ne ha compromesso la rispettabilità, perché ha portato alla saturazione del mercato, con opere di livello infimo», continua Dalrymple.



C’è chi, leggendo il declino dell’editoria di settore dentro una mutazione più ampia, è arrivato a decretare la morte della stessa letteratura di viaggio. Ne "Il turista nudo" (Adelphi 2006) l’inglese Lawrence Osborne sostiene per esempio che, in un mondo senza alterità, «l’idea stessa di viaggio è sorpassata», come già lamentava alla metà del Novecento l’antropologo Claude Lévi-Strauss in quel formidabile resoconto di viaggio che è "Tristi tropici". «Il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare», ribadisce Osborne. Il turismo ha trasformato il pianeta in uno spettacolo uniforme, «e ovunque si vada resta in bocca il saporaccio del simulacro». Dove tutto è uniforme, dice Osborne, non c’è più alterità. Senza alterità, non c’è viaggio. E senza viaggio, va da sé, non c’è letteratura di viaggio. Un genere estinto.



William Dalrymple non è d’accordo. Più che a Lawrence Osborne guarda a Colin Thubron, l’autore – tra gli altri – di "Il cuore perduto dell’Asia" (Ponte alle Grazie 2014), per il quale «la letteratura di viaggio è oggi più necessaria che mai». «È finita l’epoca in cui potevi andare da un editore, raccontargli il progetto di un viaggio in Asia centrale e ricavarne un bel contratto. Ma la letteratura di viaggio continua a esistere, sotto forme diverse», precisa Dalrymple. Per il quale «un bravo scrittore può ancora fare dell’ottima letteratura di viaggio». Soprattutto se punta lo sguardo sulle persone, anziché sui luoghi: «Una volta la letteratura di viaggio riguardava soprattutto i luoghi, e in particolare i luoghi inaccessibili, remoti, lontani. Era come mettere le bandierine sulla mappa. Oggi invece riguarda più le persone, le diversità culturali, le incomprensioni reciproche. Qui c’è un grande spazio per la buona letteratura». Ma anche una grande sfida. Perché bisogna saper gestire la distanza, l’alterità. Oscillando tra empatia e recupero della distanza critica. «La buona letteratura di viaggio è assimilabile alla narrativa, ai buoni romanzi. Ma i buoni autori si contano sulle dita delle mani».



Tra questi, cita Robert Macfarlane, l’autore di "Le antiche vie" (Einaudi 2013), «vero erede di Chatwin», Rory Stewart per "In Afghanistan" (Tea 2007) e, come esploratore e narratore delle idee, l’indiano Pankaj Mishra.
Frustrata o soddisfatta che sia, ieri come oggi rimane viva quella che perfino il disincantato Osborne descrive come «la brama di alterità, la prova che noi non siamo la misura di tutte le cose».



Per Dalrymple il viaggiare «ha un effetto liberatorio: più viaggi, e più comprendi che la tua cultura non è esclusiva, unica, liberandoti dai pregiudizi». Pregiudizi che sono centrali nel suo primo libro, «dove l’autore compara ogni cosa sulla sfondo della sua grande Civiltà con la C maiuscola», ammette ridendo Dalrymple, ma che vengono progressivamente meno nei successivi: Delhi. Un anno tra i misteri dell’India (Rizzoli 2001) e Dalla montagna sacra, un «viaggio alla scoperta della civiltà bizantina», come recita il sottotitolo (Bur 2001). Con Nove vite. Alla ricerca del sacro nell’India moderna (Adelphi 2011), pubblicato nel 2009, la prospettiva è invertita: se nel Milione l’argomento erano le avventure del narratore, e le persone incontrate venivano ridotte a oggetti sullo sfondo, con Nove vite il narratore rimane nell’ombra. Sulla scena, al suo posto, le vite di menestrelli ciechi, danzatori, cantori epici, monaci e creatori di idoli, ognuno a rappresentare «una forma diversa di devozione».



Una devozione simile a quella che Dalrymple mette nelle ricerche preliminari ai suoi viaggi. Lo si può incontrare alla Jawaharlal Nehru University o alla Delhi University, negli archivi nazionali indiani, sommerso da libri, taccuini, appunti. Perché «non esiste un vademecum per i libri di viaggio». E il suo metodo è opposto rispetto a quello di viaggiatori come Nicolas Bouvier. Per lo scrittore svizzero, «la virtù di un viaggio è di purgare la vita prima di riempirla», partire con una «volontaria ignoranza».



Dalrymple al contrario è mosso da un’inclinazione enciclopedica. Accumula note, studi, saperi e conoscenze: «prima di ogni partenza, passo mesi e mesi nelle biblioteche». Il processo di scrittura comincia già «nel corso del viaggio, quando prendi appunti e cominci a realizzare quali siano le storie che hai davanti, e quali forme assumeranno». I materiali raccolti sul campo e in biblioteca vanno poi passati al setaccio e combinati insieme. «È come tessere un tappeto, che ha disegni e intrecci differenti, da combinare in modo organico». Farlo non è semplice. È questione di limatura. Togliere, più che aggiungere. Come nella scultura. «Come cercare un diamante» in una miniera di appunti e conoscenze.



E proprio a un diamante è dedicato il suo ultimo libro. Scritto insieme ad Anita Anand, fa seguito all’affascinante trilogia di romanzi storici dedicata alla Compagnia delle Indie orientali conclusa con I"l ritorno di un re. La battaglia per l’Afghanistan" (Adelphi 2015). Si intitola "Koh-i-noor: The Story of the World’s Most Infamous Diamond" ed è, a suo modo, anche questo un libro di viaggi. «Il viaggio del diamante Koh-i-noor, dal Trono del pavone dei Moghul alla corona della regina Vittoria, tra storia e mitologia, colpi di scena e rivendicazioni».

Repubblica Viaggi

Italia dimenticata / L'abolizione delle Province sta desertificando la montagna


La montagna brucia e le riflessioni si dividono fra le colpe dovute all'incuria e quelle dei balordi. In Valsusa ci vorranno più di dieci anni per ricostruire, ma la sensazione è che non tutto sia più come prima. Chi abita la montagna non ha più la forza di gestire il bosco, di pulirlo e poi manca la massa di abitanti che un tempo teneva a bada le emergenze. Nello scorso week end sono stato in quella Valsassina dominata dal monte Resegone, sopra Lecco, a vedere i tramonti rossi della sera. Ma i paesi sembravano spettrali: poca gente, nonostante una giornata di sole, bellissima. L'inverno da queste parti è sempre più triste, dicono gli anziani, che non vedono più il flusso turistico di un tempo, quel via vai di milanesi che portavano i danée. Eppure le strade sono più comode e veloci di pochi anni fa, ma è venuto a mancare l'anello forte dell'amministrazione di prossimità, la Provincia. Sono state abolite le Province, ma forse no, secondo il solito equivoco all'italiana; in ogni caso sono incapaci di intervenire capillarmente, di promuovere un territorio, di occuparsi della cosa pubblica come si dovrebbe. Con la scusa del risparmio si è incentivata la desertificazione della periferia e anche della montagna. E nessuno vuole prendersi carico di una situazione che balza agli onori delle cronache solo quando nevica, si incendia un bosco o accade una tragedia. La signora che vende il taleggio non ti parla più di qualità del latte, alpeggi e curiosità intorno al suo prodotto che rimane sempre buono. Non fa più racconti: si lamenta. Ma i giovani che hanno aperto il "Pan Cafè" a Moggio Valsassina vendono le torte a fette, buonissime, e ti compongono una torta con sei tipi diversi. E sono pieni di gente, dalla mattina alla sera. Anche Michela e Stefano del "Faggio Rosso" di Baiedo di Pasturo hanno investito in un locale tutto nuovo, che ora festeggia i 10 anni. Ha l'ambiente di una baita con la stube dove servono polenta e cervo in salmì, pizzoccheri e scapinasc, ma fanno anche la pizza. Attilio Locatelli, che ha creato la cascina Coldognetta a Barzio, ha messo in rete una serie di aziende agricole e nel suo agriturismo i prodotti sono biologici e delle cascine intorno. Cosa ha mosso queste tre micro-imprese, lontane dai riflettori della città o del lago, se non un attaccamento alla propria terra? Anche se non basta, perché ciò che li accomuna è la distinzione qualitativa. Solo qui puoi trovare quei sapori, quel clima, quel silenzio. Ma chi promuove la loro impresa? Chi li indica come esempi virtuosi che andrebbero imitati? L'appello di questa settimana è impegnativo: la montagna è dimenticata da troppo tempo e l'azzeramento dei livelli intermedi non fa che accelerare una morte annunciata. È questa l'Italia che vogliamo?
Avvenire

Anniversario. Le lettere sconosciute di Rebora

La vigilia del sessantesimo anniversario della morte di Clemente Rebora (Milano, 6 gennaio 1885 – Stresa, 1° novembre 1957) mi ha portato un inatteso regalo. Da qualche tempo sto lavorando – per la collana “A caccia di Dio” dell’editore Cantagalli – ad un volumetto che riporta, con brevi commenti, le lettere del Rebora universitario (1904-1910), già pubblicate nel primo dei tre volumi dell’Epistolario curato da Carmelo Giovannini per Edb. In quegli anni Rebora viveva una strettissima amicizia con Angelo Monteverdi, Antonio Banfi e Daria Malaguzzi, che rappresentava l’anima del gruppo e sarebbe diventata la moglie di Banfi. Nell’Epistolario edito sono numerosissime le lettere a Monteverdi e alla Malaguzzi, meno quelle a Banfi. Per scrupolo di completezza ho voluto consultare l’archivio della Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, che possiede una parte del fondo Banfi- Malaguzzi; con sorpresa ho trovato dodici inediti (tra lettere e cartoline postali). Altri si occuperanno di approntare una pubblicazione filologicamente corretta, io sono contento di poter offrire ai lettori di Avvenire la prima di queste lettere come omaggio al grande e ancora troppo poco conosciuto poeta milanese, che, come questa lettera dimostra, è stato anche un notevolissimo, inventivo e complesso prosatore. Passiamo dunque ad analizzare il testo. Prima di tutto notiamo i due punti esclamativi che seguono l’indicazione del luogo da cui parte la lettera: Milano. 

Rebora è rimasto in città per raccogliere gli ultimi materiali necessari a scrivere la tesi di laurea e certamente quei due punti esclamativi significano invidia per l’amico Banfi che si sta riposando da qualche parte. Ma molto più profondamente la sottolineatura esclamativa dichiara in un sol colpo la feroce e permanente ostilità reboriana nei confronti della città, emblema di rapporti falsi e d’assenza di profondità spirituale. Le possibili conferme da altre lettere sono numerosissime; ne bastino due: «La mia anima è lungi dal frastuono tedioso della città ove l’aria pare viziata e impura come il fiato di un’ammalata» (alla madre, 11 settembre 1904); «Nessun palpito né alcuna idea mi suscita questa monotona città, ingorda di opere e d’ingegni, ma fredda d’anima» (a Daria Malaguzzi, 22 marzo 1909). Del resto l’opposizione tra la città e l’amatissima montagna costituisce uno dei temi cruciali della partitura della prima raccolta poetica di Rebora, Frammenti lirici (1913). L’inizio della lettera descrive una situazione esistenziale desolante (formidabile l’immagine del digiunatore che non ha neppure più la forza di aver fame) in un contesto ostile: la città, appunto, che non solo è climaticamente avversa allo studio – «affocata» –, ma soprattutto mostra il suo volto più devastante: è piena di gente capace di far soldi, ma non di suscitare un autentico sentimento di affezione. Per di più lo studio appare fatica soverchiante (e forse inutile), tanto che affiora una percezione di sé che Rebora ha spesso comunicato agli amici: contrariamente a loro (che infatti faranno importanti carriere accademiche), lui sarebbe stato un fallito dal punto di vista sociale. È a questo punto che arriva il tipico colpo di reni che inverte la negativa direzione intrapresa: «Con tutto ciò io non dispero».

È una dinamica frequentissima nei Frammenti lirici, messa normalmente in moto da un granitico “Ma” posto all’inizio del verso. Pur prostrato dalla fatica Rebora non cede, non si rinchiude, non assapora malinconico il proprio dolore; egli è lontanissimo sia dalla sensibilità decadentista che guarda ogni crisi con compiaciuta curiosità o morbosa soddisfazione, sia dal ripiegamento intimistico dei crepuscolari. Rebora sa di avere in sé, anche se temporaneamente obnubilate, armonie profonde (allora si dilettava in lunghissime improvvisazioni al pianoforte), ali per voli ben più vasti del soffocamento cittadino e dell’aridità degli studi accademici. Egli ha in sé una «invincibile potenza» che «batte con mille cuori». Si dovrebbe, per spiegare meglio, dar conto delle letture preferite e dei riferimenti filosofici del giovane Rebora; qui basterà ricordare che esse mirano alla ricerca dell’unità dell’io personale col «tutto», il cui volto non è ancora chiaro ma certissimamente affermato e, in momenti quasi estatici, intuito. Nel seguito della vita di Rebora sarà il tutto dell’idealismo, poi il Dio mazziniano, poi la totalità delle religioni orientali; finché esausto per questa ricerca perennemente insoddisfacente, scoprirà il tutto come Persona e in essa il suo «cuore inquieto» finalmente riposerà. 

Ma torniamo al giovane laureando. Non c’è bisogno di grandi approfondimenti filosofici per gustare la fresca rappresentazione che egli offre del suo immergersi nel tutto, basta immaginarselo quando si descrive che va a spasso di sera, giovanilmente contento, per le vie di Milano, e guarda attento, con «bontà virilissima», tutto ciò che lo circonda e ne gode in una potente «fusione spirituale». Poi torna la paura del fallimento: la vita andrebbe affrontata con grinta predatoria e audacia non priva di violenza e invece Rebora arrossisce di fronte ad essa e le lascia il passo con garbo, non vuole nemmeno stuzzicarla. Ma neanche il fallimento potrà soffocare «le voci che parlano dentro con portento»; Rebora ne è così sicuro che s’inventa una formulazione logicamente impossibile ed efficacissima: «Se ciò dovesse accadere, non accadrà». È interessante, infine, notare che il «lei» che qui indica la vita potrebbe designare anche una donna concreta; un mese dopo la lettera che stiamo analizzando (29 luglio) Rebora scriverà alla Malaguzzi: «Io veggo attorno mille audaci cacciatori che stendono e prendono: ora dell’amore grosso io non so che farne; potrei averne a bracciate, ma è drittamente a’ miei antipodi; l’altro, quello che mi turbina nel petto, è timido, […] ha la limpidezza di un bimbo quando non è bugiardo; ma non sa sbocciare e farsi intendere perché ha paura (poveretto, a questi lumi di luna!) di fare il mercatino, la commediola».

L'INEDITO

Milano!! 22 giugno 1909 Grazie: la tua voce mi ha raggiunto, mentre estenuato guardavo senza commovimento la mia anima stanca, che non aveva d’intorno nessun richiamo valido a trarla più su d’un palmo. Essa è come chi digiuni da tempo soverchio e non ha più forza neppure d’aver fame: mi circonda un’affocata città che batte moneta e non ha tempo d’innamorare; libri e libri che mi premono senza pensiero, tra l’ansia di libri e libri che si urgono per aver il loro turno, sussurrando con astio ch’io non avrò tempo a spremerli tutti; nella visione dell’avvenire che mi annuncia fatica e fatica. Con tutto ciò io non dispero, non dilinquisco in querele, non mi corruccio torvo; o almeno di rado. Nella poca tregua, studio di raggiungermi dove sono saldo e non crollo: e come ogni bellezza mi manca per ridestare le armonie che ho qui riposte o per smuovere un vento meraviglioso ch’io so, simile a un vasto librarsi di ali infinite, io m’ingegno di respirare nell’aria raccolta addietro: e sebbene lo spirito abbia pena di rimuginare la sua opera, e non essere valido a crearsi progredendo da sé a sé, tuttavia anche mi allieto talvolta di codesta mia invincibile potenza che pare morta e batte sottilmente e lontanamente con mille cuori; e per via, la sera, senza amici, cammino, alto negli omeri, diritto nel viso senza accomodamenti o attilamenti da spasso, quasi in modo superbo (mentre una bontà virilissima mi è dentro); e godo di una nube sui tetti o d’una personcina che sguscia da un canto o di un rombo che da una piazza giunge come fumo d’incenso, si e no: tutto in una fusione spirituale che fa uniti temi di ogni cosa quotidiana e belle imagini d’ogni mediocre persona grossa o vana. Io penso (non ipoteco però l’avvenire!) che sconfitte e sconfitte mi darà la vita, poiché io arrossisco quando m’imbatto in lei o mi traggo con garbo per lasciarle il passo, e non so cingerle il fianco con audacia sgomentata né con alterigia stuzzicarla al mio falso disdegno né altro; ma penso ancora che cosa nessuna avrà forza di soffocarmi le voci che parlano dentro con portento; se ciò dovesse accadere, non accadrà. Spero che tu vorrai vedermi, quando sarai a Vimercate: se venissi una domenica, gusteresti pranzo (non sgomentarti) di mano mia. Io traggo tutto da me stesso: ma di un appoggio bisogno pure, ed è: che gli amici, anche oscuro e vinto, mi dicano d’intendere nella mia anima un bene non di comune mercanzia, ma vasto, onesto, di moltissimi occhi e tutti puri; anche se esso fosse per trovare mai espressione. Tuo Clemente
da Avvenire