"Il mondo è ancora tutto da esplorare. E da raccontare"


«Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che basta a stesso. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi disfa...». Così il fotografo e scrittore svizzero Nicolas Bouvier in quel prezioso marchingegno letterario, troppo poco conosciuto, che è "La polvere del mondo" (Diabasis 2011).


Il viaggio che ha fatto William Dalrymple, l’interprete più consapevole dell’ultima generazione di scrittori di viaggio del Novecento, è avvenuto nel 1986, non lontano dalle rotte seguite trent’anni prima dallo stesso Bouvier, che aveva raggiunto l’Afghanistan partendo da Belgrado. «Era il 1986 ed ero ancora uno studente all’Università di Cambridge», racconta all’Espresso Dalrymple, nato in Scozia nel 1956, ma residente da molti anni in India.



«Fu allora che, inaspettatamente, ottenni una borsa di studio per intraprendere uno splendido viaggio sulle orme del mio eroe, Marco Polo». Riceve una somma consistente, 700 pound, che gli permette di raggiungere la Mongoliapartendo da Gerusalemme. «Rimane il viaggio più bello e importante della mia vita. Tre mesi ad attraversare enormi territori asiatici, mosso dalla certezza - quella di chi ha 21 anni - di essere invincibile».



Il viaggio lo conduce da un estremità all’altra dell’Asia. E gli cambia per sempre la vita. Poco dopo essere rientrato in Inghilterra, Dalrymple riceve un invito dal pittore Derek Hill. «Un mio amico vuol vedere i reperti che hai trovato in Mongolia», gli anticipa Hill. L’amico è Bruce Chatwin. «Avevo letto il suo libro sulla Patagonia, che custodivo come un tesoro personale. In quel periodo stavo leggendo tutta la letteratura di viaggio, ma trovavo molti resoconti troppo cerebrali. Chatwin era diverso.



E a differenza degli altri miei eroi letterari era lì, in carne e ossa, di fronte a me». L’incontro con l’autore di "Che ci faccio qui?" è ancora nitido nella memoria di Dalrymple. «Ricordo Chatwin come un ottimo conversatore, una mente brillante. Mi affascinava con la sua conoscenza, i suoi modi di fare disinvolti, le sue storie insolite. Pur non essendo gay, ne riconoscevo la carica seduttiva, il fascino. Volevo essere come lui». Anche nella scrittura.



Dal lungo viaggio verso la Mongolia, nel 1989 William Dalrymple ricava un libro, tradotto in italiano come "Il Milione. Da Gerusalemme a Xanadu sulle orme di Marco Polo" (Rizzoli 1999). Viene accolto con entusiasmo. Sulla rivista The Spectator lo recensisce lo scrittore Patrick Leigh Fermor, che nel 1933, appena diciottenne, aveva lasciato l’Inghilterra per raggiungere a piedi Costantinopoli, con la vaga ambizione di «vivere come un pellegrino o un palmiere, o un chierico vagante».



Un’autorità in ambito letterario, Leigh Fermor contribuisce a trasformare Il Milione in un libro di successo, descrivendolo come «erudito e comico», «toccato dagli spiriti di Alexander Kinglake, Robert Byron ed Evelyn Waugh». Mostri sacri della letteratura inglese di viaggio.



William Dalrymple racconta all’Espresso che all’epoca guardava con venerazione soprattutto a Robert Byron. «Come in tutte le opere prime, nel mio libro era evidente l’ombra dei miti letterari. C’erano ovviamente i lavori di Bruce Chatwin, e poi A Short Walk in the Hindu Kush di Eric Newby e La via per l’Oxiana di Robert Byron, un testo che amo molto». Anche Bruce Chatwin venerava il testo di Robert Byron (1905-1941), «il gentleman, studioso ed esteta inglese che morì annegato nel 1941 per il siluramento della sua nave, mentre era diretto verso l’Africa occidentale». Definiva La via per l’Oxiana (Adelphi 1993) «un’opera di genio», «un testo sacro», e proprio seguendo con «ossequio servile» l’itinerario di Byron da Venezia a Kabul, Chatwin nel 1962, a 22 anni – «sei anni prima che gli hippies lo rovinassero» –, si reca in Afghanistan.



Dove Byron aveva trovato «finalmente l’Asia senza complessi d’inferiorità». E dove Chatwin cerca invece «i nomadi che camminano avanti e indietro». William Dalrymple è forse l’ultimo erede di questa tradizione di viaggiatori e scrittori. Amanti ed esploratori di quella vasta area del mondo, dal Caucaso all’India, in cui la qualità della vita si misura dalla dolcezza dei meloni. Una tradizione fortunata, anche in termini commerciali. «La mia fortun a», spiega all’Espresso, «è di aver pubblicato il primo libro quando era in corso un vero e proprio revival della letteratura di viaggio, con autori come Eric Newby, Paul Theroux e ovviamente Bruce Chatwin che avevano fatto rinascere il genere». Rendendolo commercialmente florido. «La gente comprava quel genere di libri. Potevi farne una professione, come decise di fare Chatwin. Paul Theroux, con il suo The Great Railway Bazaar, aveva venduto 1 milione e mezzo di copie!».



Una vera e propria età dell’oro della letteratura di viaggio. «È durata circa 15 anni, dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso agli anni Novanta. The Great Railway Bazaar di Theroux è del 1975, e inaugura quella stagione. In Patagonia di Chatwin è del 1977, così come Tempo di regali di Leigh Fermor. Il mio primo libro, Il Milione, è del 1989: sono riuscito a cavalcare l’ultima onda». Ormai infranta. Anche a causa del successo commerciale. «Il grande appetito per la letteratura di viaggio ne ha compromesso la rispettabilità, perché ha portato alla saturazione del mercato, con opere di livello infimo», continua Dalrymple.



C’è chi, leggendo il declino dell’editoria di settore dentro una mutazione più ampia, è arrivato a decretare la morte della stessa letteratura di viaggio. Ne "Il turista nudo" (Adelphi 2006) l’inglese Lawrence Osborne sostiene per esempio che, in un mondo senza alterità, «l’idea stessa di viaggio è sorpassata», come già lamentava alla metà del Novecento l’antropologo Claude Lévi-Strauss in quel formidabile resoconto di viaggio che è "Tristi tropici". «Il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare», ribadisce Osborne. Il turismo ha trasformato il pianeta in uno spettacolo uniforme, «e ovunque si vada resta in bocca il saporaccio del simulacro». Dove tutto è uniforme, dice Osborne, non c’è più alterità. Senza alterità, non c’è viaggio. E senza viaggio, va da sé, non c’è letteratura di viaggio. Un genere estinto.



William Dalrymple non è d’accordo. Più che a Lawrence Osborne guarda a Colin Thubron, l’autore – tra gli altri – di "Il cuore perduto dell’Asia" (Ponte alle Grazie 2014), per il quale «la letteratura di viaggio è oggi più necessaria che mai». «È finita l’epoca in cui potevi andare da un editore, raccontargli il progetto di un viaggio in Asia centrale e ricavarne un bel contratto. Ma la letteratura di viaggio continua a esistere, sotto forme diverse», precisa Dalrymple. Per il quale «un bravo scrittore può ancora fare dell’ottima letteratura di viaggio». Soprattutto se punta lo sguardo sulle persone, anziché sui luoghi: «Una volta la letteratura di viaggio riguardava soprattutto i luoghi, e in particolare i luoghi inaccessibili, remoti, lontani. Era come mettere le bandierine sulla mappa. Oggi invece riguarda più le persone, le diversità culturali, le incomprensioni reciproche. Qui c’è un grande spazio per la buona letteratura». Ma anche una grande sfida. Perché bisogna saper gestire la distanza, l’alterità. Oscillando tra empatia e recupero della distanza critica. «La buona letteratura di viaggio è assimilabile alla narrativa, ai buoni romanzi. Ma i buoni autori si contano sulle dita delle mani».



Tra questi, cita Robert Macfarlane, l’autore di "Le antiche vie" (Einaudi 2013), «vero erede di Chatwin», Rory Stewart per "In Afghanistan" (Tea 2007) e, come esploratore e narratore delle idee, l’indiano Pankaj Mishra.
Frustrata o soddisfatta che sia, ieri come oggi rimane viva quella che perfino il disincantato Osborne descrive come «la brama di alterità, la prova che noi non siamo la misura di tutte le cose».



Per Dalrymple il viaggiare «ha un effetto liberatorio: più viaggi, e più comprendi che la tua cultura non è esclusiva, unica, liberandoti dai pregiudizi». Pregiudizi che sono centrali nel suo primo libro, «dove l’autore compara ogni cosa sulla sfondo della sua grande Civiltà con la C maiuscola», ammette ridendo Dalrymple, ma che vengono progressivamente meno nei successivi: Delhi. Un anno tra i misteri dell’India (Rizzoli 2001) e Dalla montagna sacra, un «viaggio alla scoperta della civiltà bizantina», come recita il sottotitolo (Bur 2001). Con Nove vite. Alla ricerca del sacro nell’India moderna (Adelphi 2011), pubblicato nel 2009, la prospettiva è invertita: se nel Milione l’argomento erano le avventure del narratore, e le persone incontrate venivano ridotte a oggetti sullo sfondo, con Nove vite il narratore rimane nell’ombra. Sulla scena, al suo posto, le vite di menestrelli ciechi, danzatori, cantori epici, monaci e creatori di idoli, ognuno a rappresentare «una forma diversa di devozione».



Una devozione simile a quella che Dalrymple mette nelle ricerche preliminari ai suoi viaggi. Lo si può incontrare alla Jawaharlal Nehru University o alla Delhi University, negli archivi nazionali indiani, sommerso da libri, taccuini, appunti. Perché «non esiste un vademecum per i libri di viaggio». E il suo metodo è opposto rispetto a quello di viaggiatori come Nicolas Bouvier. Per lo scrittore svizzero, «la virtù di un viaggio è di purgare la vita prima di riempirla», partire con una «volontaria ignoranza».



Dalrymple al contrario è mosso da un’inclinazione enciclopedica. Accumula note, studi, saperi e conoscenze: «prima di ogni partenza, passo mesi e mesi nelle biblioteche». Il processo di scrittura comincia già «nel corso del viaggio, quando prendi appunti e cominci a realizzare quali siano le storie che hai davanti, e quali forme assumeranno». I materiali raccolti sul campo e in biblioteca vanno poi passati al setaccio e combinati insieme. «È come tessere un tappeto, che ha disegni e intrecci differenti, da combinare in modo organico». Farlo non è semplice. È questione di limatura. Togliere, più che aggiungere. Come nella scultura. «Come cercare un diamante» in una miniera di appunti e conoscenze.



E proprio a un diamante è dedicato il suo ultimo libro. Scritto insieme ad Anita Anand, fa seguito all’affascinante trilogia di romanzi storici dedicata alla Compagnia delle Indie orientali conclusa con I"l ritorno di un re. La battaglia per l’Afghanistan" (Adelphi 2015). Si intitola "Koh-i-noor: The Story of the World’s Most Infamous Diamond" ed è, a suo modo, anche questo un libro di viaggi. «Il viaggio del diamante Koh-i-noor, dal Trono del pavone dei Moghul alla corona della regina Vittoria, tra storia e mitologia, colpi di scena e rivendicazioni».

Repubblica Viaggi

Italia dimenticata / L'abolizione delle Province sta desertificando la montagna


La montagna brucia e le riflessioni si dividono fra le colpe dovute all'incuria e quelle dei balordi. In Valsusa ci vorranno più di dieci anni per ricostruire, ma la sensazione è che non tutto sia più come prima. Chi abita la montagna non ha più la forza di gestire il bosco, di pulirlo e poi manca la massa di abitanti che un tempo teneva a bada le emergenze. Nello scorso week end sono stato in quella Valsassina dominata dal monte Resegone, sopra Lecco, a vedere i tramonti rossi della sera. Ma i paesi sembravano spettrali: poca gente, nonostante una giornata di sole, bellissima. L'inverno da queste parti è sempre più triste, dicono gli anziani, che non vedono più il flusso turistico di un tempo, quel via vai di milanesi che portavano i danée. Eppure le strade sono più comode e veloci di pochi anni fa, ma è venuto a mancare l'anello forte dell'amministrazione di prossimità, la Provincia. Sono state abolite le Province, ma forse no, secondo il solito equivoco all'italiana; in ogni caso sono incapaci di intervenire capillarmente, di promuovere un territorio, di occuparsi della cosa pubblica come si dovrebbe. Con la scusa del risparmio si è incentivata la desertificazione della periferia e anche della montagna. E nessuno vuole prendersi carico di una situazione che balza agli onori delle cronache solo quando nevica, si incendia un bosco o accade una tragedia. La signora che vende il taleggio non ti parla più di qualità del latte, alpeggi e curiosità intorno al suo prodotto che rimane sempre buono. Non fa più racconti: si lamenta. Ma i giovani che hanno aperto il "Pan Cafè" a Moggio Valsassina vendono le torte a fette, buonissime, e ti compongono una torta con sei tipi diversi. E sono pieni di gente, dalla mattina alla sera. Anche Michela e Stefano del "Faggio Rosso" di Baiedo di Pasturo hanno investito in un locale tutto nuovo, che ora festeggia i 10 anni. Ha l'ambiente di una baita con la stube dove servono polenta e cervo in salmì, pizzoccheri e scapinasc, ma fanno anche la pizza. Attilio Locatelli, che ha creato la cascina Coldognetta a Barzio, ha messo in rete una serie di aziende agricole e nel suo agriturismo i prodotti sono biologici e delle cascine intorno. Cosa ha mosso queste tre micro-imprese, lontane dai riflettori della città o del lago, se non un attaccamento alla propria terra? Anche se non basta, perché ciò che li accomuna è la distinzione qualitativa. Solo qui puoi trovare quei sapori, quel clima, quel silenzio. Ma chi promuove la loro impresa? Chi li indica come esempi virtuosi che andrebbero imitati? L'appello di questa settimana è impegnativo: la montagna è dimenticata da troppo tempo e l'azzeramento dei livelli intermedi non fa che accelerare una morte annunciata. È questa l'Italia che vogliamo?
Avvenire

Anniversario. Le lettere sconosciute di Rebora

La vigilia del sessantesimo anniversario della morte di Clemente Rebora (Milano, 6 gennaio 1885 – Stresa, 1° novembre 1957) mi ha portato un inatteso regalo. Da qualche tempo sto lavorando – per la collana “A caccia di Dio” dell’editore Cantagalli – ad un volumetto che riporta, con brevi commenti, le lettere del Rebora universitario (1904-1910), già pubblicate nel primo dei tre volumi dell’Epistolario curato da Carmelo Giovannini per Edb. In quegli anni Rebora viveva una strettissima amicizia con Angelo Monteverdi, Antonio Banfi e Daria Malaguzzi, che rappresentava l’anima del gruppo e sarebbe diventata la moglie di Banfi. Nell’Epistolario edito sono numerosissime le lettere a Monteverdi e alla Malaguzzi, meno quelle a Banfi. Per scrupolo di completezza ho voluto consultare l’archivio della Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, che possiede una parte del fondo Banfi- Malaguzzi; con sorpresa ho trovato dodici inediti (tra lettere e cartoline postali). Altri si occuperanno di approntare una pubblicazione filologicamente corretta, io sono contento di poter offrire ai lettori di Avvenire la prima di queste lettere come omaggio al grande e ancora troppo poco conosciuto poeta milanese, che, come questa lettera dimostra, è stato anche un notevolissimo, inventivo e complesso prosatore. Passiamo dunque ad analizzare il testo. Prima di tutto notiamo i due punti esclamativi che seguono l’indicazione del luogo da cui parte la lettera: Milano. 

Rebora è rimasto in città per raccogliere gli ultimi materiali necessari a scrivere la tesi di laurea e certamente quei due punti esclamativi significano invidia per l’amico Banfi che si sta riposando da qualche parte. Ma molto più profondamente la sottolineatura esclamativa dichiara in un sol colpo la feroce e permanente ostilità reboriana nei confronti della città, emblema di rapporti falsi e d’assenza di profondità spirituale. Le possibili conferme da altre lettere sono numerosissime; ne bastino due: «La mia anima è lungi dal frastuono tedioso della città ove l’aria pare viziata e impura come il fiato di un’ammalata» (alla madre, 11 settembre 1904); «Nessun palpito né alcuna idea mi suscita questa monotona città, ingorda di opere e d’ingegni, ma fredda d’anima» (a Daria Malaguzzi, 22 marzo 1909). Del resto l’opposizione tra la città e l’amatissima montagna costituisce uno dei temi cruciali della partitura della prima raccolta poetica di Rebora, Frammenti lirici (1913). L’inizio della lettera descrive una situazione esistenziale desolante (formidabile l’immagine del digiunatore che non ha neppure più la forza di aver fame) in un contesto ostile: la città, appunto, che non solo è climaticamente avversa allo studio – «affocata» –, ma soprattutto mostra il suo volto più devastante: è piena di gente capace di far soldi, ma non di suscitare un autentico sentimento di affezione. Per di più lo studio appare fatica soverchiante (e forse inutile), tanto che affiora una percezione di sé che Rebora ha spesso comunicato agli amici: contrariamente a loro (che infatti faranno importanti carriere accademiche), lui sarebbe stato un fallito dal punto di vista sociale. È a questo punto che arriva il tipico colpo di reni che inverte la negativa direzione intrapresa: «Con tutto ciò io non dispero».

È una dinamica frequentissima nei Frammenti lirici, messa normalmente in moto da un granitico “Ma” posto all’inizio del verso. Pur prostrato dalla fatica Rebora non cede, non si rinchiude, non assapora malinconico il proprio dolore; egli è lontanissimo sia dalla sensibilità decadentista che guarda ogni crisi con compiaciuta curiosità o morbosa soddisfazione, sia dal ripiegamento intimistico dei crepuscolari. Rebora sa di avere in sé, anche se temporaneamente obnubilate, armonie profonde (allora si dilettava in lunghissime improvvisazioni al pianoforte), ali per voli ben più vasti del soffocamento cittadino e dell’aridità degli studi accademici. Egli ha in sé una «invincibile potenza» che «batte con mille cuori». Si dovrebbe, per spiegare meglio, dar conto delle letture preferite e dei riferimenti filosofici del giovane Rebora; qui basterà ricordare che esse mirano alla ricerca dell’unità dell’io personale col «tutto», il cui volto non è ancora chiaro ma certissimamente affermato e, in momenti quasi estatici, intuito. Nel seguito della vita di Rebora sarà il tutto dell’idealismo, poi il Dio mazziniano, poi la totalità delle religioni orientali; finché esausto per questa ricerca perennemente insoddisfacente, scoprirà il tutto come Persona e in essa il suo «cuore inquieto» finalmente riposerà. 

Ma torniamo al giovane laureando. Non c’è bisogno di grandi approfondimenti filosofici per gustare la fresca rappresentazione che egli offre del suo immergersi nel tutto, basta immaginarselo quando si descrive che va a spasso di sera, giovanilmente contento, per le vie di Milano, e guarda attento, con «bontà virilissima», tutto ciò che lo circonda e ne gode in una potente «fusione spirituale». Poi torna la paura del fallimento: la vita andrebbe affrontata con grinta predatoria e audacia non priva di violenza e invece Rebora arrossisce di fronte ad essa e le lascia il passo con garbo, non vuole nemmeno stuzzicarla. Ma neanche il fallimento potrà soffocare «le voci che parlano dentro con portento»; Rebora ne è così sicuro che s’inventa una formulazione logicamente impossibile ed efficacissima: «Se ciò dovesse accadere, non accadrà». È interessante, infine, notare che il «lei» che qui indica la vita potrebbe designare anche una donna concreta; un mese dopo la lettera che stiamo analizzando (29 luglio) Rebora scriverà alla Malaguzzi: «Io veggo attorno mille audaci cacciatori che stendono e prendono: ora dell’amore grosso io non so che farne; potrei averne a bracciate, ma è drittamente a’ miei antipodi; l’altro, quello che mi turbina nel petto, è timido, […] ha la limpidezza di un bimbo quando non è bugiardo; ma non sa sbocciare e farsi intendere perché ha paura (poveretto, a questi lumi di luna!) di fare il mercatino, la commediola».

L'INEDITO

Milano!! 22 giugno 1909 Grazie: la tua voce mi ha raggiunto, mentre estenuato guardavo senza commovimento la mia anima stanca, che non aveva d’intorno nessun richiamo valido a trarla più su d’un palmo. Essa è come chi digiuni da tempo soverchio e non ha più forza neppure d’aver fame: mi circonda un’affocata città che batte moneta e non ha tempo d’innamorare; libri e libri che mi premono senza pensiero, tra l’ansia di libri e libri che si urgono per aver il loro turno, sussurrando con astio ch’io non avrò tempo a spremerli tutti; nella visione dell’avvenire che mi annuncia fatica e fatica. Con tutto ciò io non dispero, non dilinquisco in querele, non mi corruccio torvo; o almeno di rado. Nella poca tregua, studio di raggiungermi dove sono saldo e non crollo: e come ogni bellezza mi manca per ridestare le armonie che ho qui riposte o per smuovere un vento meraviglioso ch’io so, simile a un vasto librarsi di ali infinite, io m’ingegno di respirare nell’aria raccolta addietro: e sebbene lo spirito abbia pena di rimuginare la sua opera, e non essere valido a crearsi progredendo da sé a sé, tuttavia anche mi allieto talvolta di codesta mia invincibile potenza che pare morta e batte sottilmente e lontanamente con mille cuori; e per via, la sera, senza amici, cammino, alto negli omeri, diritto nel viso senza accomodamenti o attilamenti da spasso, quasi in modo superbo (mentre una bontà virilissima mi è dentro); e godo di una nube sui tetti o d’una personcina che sguscia da un canto o di un rombo che da una piazza giunge come fumo d’incenso, si e no: tutto in una fusione spirituale che fa uniti temi di ogni cosa quotidiana e belle imagini d’ogni mediocre persona grossa o vana. Io penso (non ipoteco però l’avvenire!) che sconfitte e sconfitte mi darà la vita, poiché io arrossisco quando m’imbatto in lei o mi traggo con garbo per lasciarle il passo, e non so cingerle il fianco con audacia sgomentata né con alterigia stuzzicarla al mio falso disdegno né altro; ma penso ancora che cosa nessuna avrà forza di soffocarmi le voci che parlano dentro con portento; se ciò dovesse accadere, non accadrà. Spero che tu vorrai vedermi, quando sarai a Vimercate: se venissi una domenica, gusteresti pranzo (non sgomentarti) di mano mia. Io traggo tutto da me stesso: ma di un appoggio bisogno pure, ed è: che gli amici, anche oscuro e vinto, mi dicano d’intendere nella mia anima un bene non di comune mercanzia, ma vasto, onesto, di moltissimi occhi e tutti puri; anche se esso fosse per trovare mai espressione. Tuo Clemente
da Avvenire

GRECCIO: LA REGIONE SOSTIENE IL TURISMO RELIGIOSO


La Regione crede e sostiene il progetto della Valle del primo presepe con grande entusiasmo. Un progetto importante per valorizzare uno dei luoghi d'Italia più carichi di storia, spiritualità e bellezza. Far tornare chi cerca il turismo religioso e non solo significa aiutare queste comunità a sentirsi più forti e a non abbandonare quelle terre 
30/10/2017 - Un progetto importante per valorizzare uno dei luoghi d'Italia più carichi di storia, spiritualità e bellezza come il Santuario di Greccio. La Regione Lazio crede e sostiene il progetto della Valle del primo presepe con grande entusiasmo. In primo luogo perché questa iniziativa da continuità al percorso già intrapreso con il Giubileo per la valorizzazione e la promozione di itinerari storico-religiosi del Lazio, tra i quali la via Francigena di San Francesco da Rieti a Roma. 

La ricostruzione è in primo luogo materiale, delle case, delle scuole. Ma è anche, e soprattutto economica, sociale, culturale, costruzione di prospettive di vita. Non c'è dubbio che la promozione del territorio, valorizzando in questo caso una spiritualità e una storia fortissime, è parte di questo progetto. 

“Far tornare chi cerca il turismo religioso e non solo significa aiutare queste comunità a sentirsi più forti e a non abbandonare quelle terre, rimanere lì –parole del presidente, Nicola Zingaretti, che ha aggiunto: non esiste al mondo un concentrato simile a quello dei percorsi religiosi che la Regione Lazio ospita”.
regione.lazio.it