Anniversario. Le lettere sconosciute di Rebora

La vigilia del sessantesimo anniversario della morte di Clemente Rebora (Milano, 6 gennaio 1885 – Stresa, 1° novembre 1957) mi ha portato un inatteso regalo. Da qualche tempo sto lavorando – per la collana “A caccia di Dio” dell’editore Cantagalli – ad un volumetto che riporta, con brevi commenti, le lettere del Rebora universitario (1904-1910), già pubblicate nel primo dei tre volumi dell’Epistolario curato da Carmelo Giovannini per Edb. In quegli anni Rebora viveva una strettissima amicizia con Angelo Monteverdi, Antonio Banfi e Daria Malaguzzi, che rappresentava l’anima del gruppo e sarebbe diventata la moglie di Banfi. Nell’Epistolario edito sono numerosissime le lettere a Monteverdi e alla Malaguzzi, meno quelle a Banfi. Per scrupolo di completezza ho voluto consultare l’archivio della Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, che possiede una parte del fondo Banfi- Malaguzzi; con sorpresa ho trovato dodici inediti (tra lettere e cartoline postali). Altri si occuperanno di approntare una pubblicazione filologicamente corretta, io sono contento di poter offrire ai lettori di Avvenire la prima di queste lettere come omaggio al grande e ancora troppo poco conosciuto poeta milanese, che, come questa lettera dimostra, è stato anche un notevolissimo, inventivo e complesso prosatore. Passiamo dunque ad analizzare il testo. Prima di tutto notiamo i due punti esclamativi che seguono l’indicazione del luogo da cui parte la lettera: Milano. 

Rebora è rimasto in città per raccogliere gli ultimi materiali necessari a scrivere la tesi di laurea e certamente quei due punti esclamativi significano invidia per l’amico Banfi che si sta riposando da qualche parte. Ma molto più profondamente la sottolineatura esclamativa dichiara in un sol colpo la feroce e permanente ostilità reboriana nei confronti della città, emblema di rapporti falsi e d’assenza di profondità spirituale. Le possibili conferme da altre lettere sono numerosissime; ne bastino due: «La mia anima è lungi dal frastuono tedioso della città ove l’aria pare viziata e impura come il fiato di un’ammalata» (alla madre, 11 settembre 1904); «Nessun palpito né alcuna idea mi suscita questa monotona città, ingorda di opere e d’ingegni, ma fredda d’anima» (a Daria Malaguzzi, 22 marzo 1909). Del resto l’opposizione tra la città e l’amatissima montagna costituisce uno dei temi cruciali della partitura della prima raccolta poetica di Rebora, Frammenti lirici (1913). L’inizio della lettera descrive una situazione esistenziale desolante (formidabile l’immagine del digiunatore che non ha neppure più la forza di aver fame) in un contesto ostile: la città, appunto, che non solo è climaticamente avversa allo studio – «affocata» –, ma soprattutto mostra il suo volto più devastante: è piena di gente capace di far soldi, ma non di suscitare un autentico sentimento di affezione. Per di più lo studio appare fatica soverchiante (e forse inutile), tanto che affiora una percezione di sé che Rebora ha spesso comunicato agli amici: contrariamente a loro (che infatti faranno importanti carriere accademiche), lui sarebbe stato un fallito dal punto di vista sociale. È a questo punto che arriva il tipico colpo di reni che inverte la negativa direzione intrapresa: «Con tutto ciò io non dispero».

È una dinamica frequentissima nei Frammenti lirici, messa normalmente in moto da un granitico “Ma” posto all’inizio del verso. Pur prostrato dalla fatica Rebora non cede, non si rinchiude, non assapora malinconico il proprio dolore; egli è lontanissimo sia dalla sensibilità decadentista che guarda ogni crisi con compiaciuta curiosità o morbosa soddisfazione, sia dal ripiegamento intimistico dei crepuscolari. Rebora sa di avere in sé, anche se temporaneamente obnubilate, armonie profonde (allora si dilettava in lunghissime improvvisazioni al pianoforte), ali per voli ben più vasti del soffocamento cittadino e dell’aridità degli studi accademici. Egli ha in sé una «invincibile potenza» che «batte con mille cuori». Si dovrebbe, per spiegare meglio, dar conto delle letture preferite e dei riferimenti filosofici del giovane Rebora; qui basterà ricordare che esse mirano alla ricerca dell’unità dell’io personale col «tutto», il cui volto non è ancora chiaro ma certissimamente affermato e, in momenti quasi estatici, intuito. Nel seguito della vita di Rebora sarà il tutto dell’idealismo, poi il Dio mazziniano, poi la totalità delle religioni orientali; finché esausto per questa ricerca perennemente insoddisfacente, scoprirà il tutto come Persona e in essa il suo «cuore inquieto» finalmente riposerà. 

Ma torniamo al giovane laureando. Non c’è bisogno di grandi approfondimenti filosofici per gustare la fresca rappresentazione che egli offre del suo immergersi nel tutto, basta immaginarselo quando si descrive che va a spasso di sera, giovanilmente contento, per le vie di Milano, e guarda attento, con «bontà virilissima», tutto ciò che lo circonda e ne gode in una potente «fusione spirituale». Poi torna la paura del fallimento: la vita andrebbe affrontata con grinta predatoria e audacia non priva di violenza e invece Rebora arrossisce di fronte ad essa e le lascia il passo con garbo, non vuole nemmeno stuzzicarla. Ma neanche il fallimento potrà soffocare «le voci che parlano dentro con portento»; Rebora ne è così sicuro che s’inventa una formulazione logicamente impossibile ed efficacissima: «Se ciò dovesse accadere, non accadrà». È interessante, infine, notare che il «lei» che qui indica la vita potrebbe designare anche una donna concreta; un mese dopo la lettera che stiamo analizzando (29 luglio) Rebora scriverà alla Malaguzzi: «Io veggo attorno mille audaci cacciatori che stendono e prendono: ora dell’amore grosso io non so che farne; potrei averne a bracciate, ma è drittamente a’ miei antipodi; l’altro, quello che mi turbina nel petto, è timido, […] ha la limpidezza di un bimbo quando non è bugiardo; ma non sa sbocciare e farsi intendere perché ha paura (poveretto, a questi lumi di luna!) di fare il mercatino, la commediola».

L'INEDITO

Milano!! 22 giugno 1909 Grazie: la tua voce mi ha raggiunto, mentre estenuato guardavo senza commovimento la mia anima stanca, che non aveva d’intorno nessun richiamo valido a trarla più su d’un palmo. Essa è come chi digiuni da tempo soverchio e non ha più forza neppure d’aver fame: mi circonda un’affocata città che batte moneta e non ha tempo d’innamorare; libri e libri che mi premono senza pensiero, tra l’ansia di libri e libri che si urgono per aver il loro turno, sussurrando con astio ch’io non avrò tempo a spremerli tutti; nella visione dell’avvenire che mi annuncia fatica e fatica. Con tutto ciò io non dispero, non dilinquisco in querele, non mi corruccio torvo; o almeno di rado. Nella poca tregua, studio di raggiungermi dove sono saldo e non crollo: e come ogni bellezza mi manca per ridestare le armonie che ho qui riposte o per smuovere un vento meraviglioso ch’io so, simile a un vasto librarsi di ali infinite, io m’ingegno di respirare nell’aria raccolta addietro: e sebbene lo spirito abbia pena di rimuginare la sua opera, e non essere valido a crearsi progredendo da sé a sé, tuttavia anche mi allieto talvolta di codesta mia invincibile potenza che pare morta e batte sottilmente e lontanamente con mille cuori; e per via, la sera, senza amici, cammino, alto negli omeri, diritto nel viso senza accomodamenti o attilamenti da spasso, quasi in modo superbo (mentre una bontà virilissima mi è dentro); e godo di una nube sui tetti o d’una personcina che sguscia da un canto o di un rombo che da una piazza giunge come fumo d’incenso, si e no: tutto in una fusione spirituale che fa uniti temi di ogni cosa quotidiana e belle imagini d’ogni mediocre persona grossa o vana. Io penso (non ipoteco però l’avvenire!) che sconfitte e sconfitte mi darà la vita, poiché io arrossisco quando m’imbatto in lei o mi traggo con garbo per lasciarle il passo, e non so cingerle il fianco con audacia sgomentata né con alterigia stuzzicarla al mio falso disdegno né altro; ma penso ancora che cosa nessuna avrà forza di soffocarmi le voci che parlano dentro con portento; se ciò dovesse accadere, non accadrà. Spero che tu vorrai vedermi, quando sarai a Vimercate: se venissi una domenica, gusteresti pranzo (non sgomentarti) di mano mia. Io traggo tutto da me stesso: ma di un appoggio bisogno pure, ed è: che gli amici, anche oscuro e vinto, mi dicano d’intendere nella mia anima un bene non di comune mercanzia, ma vasto, onesto, di moltissimi occhi e tutti puri; anche se esso fosse per trovare mai espressione. Tuo Clemente
da Avvenire

GRECCIO: LA REGIONE SOSTIENE IL TURISMO RELIGIOSO


La Regione crede e sostiene il progetto della Valle del primo presepe con grande entusiasmo. Un progetto importante per valorizzare uno dei luoghi d'Italia più carichi di storia, spiritualità e bellezza. Far tornare chi cerca il turismo religioso e non solo significa aiutare queste comunità a sentirsi più forti e a non abbandonare quelle terre 
30/10/2017 - Un progetto importante per valorizzare uno dei luoghi d'Italia più carichi di storia, spiritualità e bellezza come il Santuario di Greccio. La Regione Lazio crede e sostiene il progetto della Valle del primo presepe con grande entusiasmo. In primo luogo perché questa iniziativa da continuità al percorso già intrapreso con il Giubileo per la valorizzazione e la promozione di itinerari storico-religiosi del Lazio, tra i quali la via Francigena di San Francesco da Rieti a Roma. 

La ricostruzione è in primo luogo materiale, delle case, delle scuole. Ma è anche, e soprattutto economica, sociale, culturale, costruzione di prospettive di vita. Non c'è dubbio che la promozione del territorio, valorizzando in questo caso una spiritualità e una storia fortissime, è parte di questo progetto. 

“Far tornare chi cerca il turismo religioso e non solo significa aiutare queste comunità a sentirsi più forti e a non abbandonare quelle terre, rimanere lì –parole del presidente, Nicola Zingaretti, che ha aggiunto: non esiste al mondo un concentrato simile a quello dei percorsi religiosi che la Regione Lazio ospita”.
regione.lazio.it

La nuova dimensione del Turismo Religioso



Quello del turismo religioso è un fenomeno multiforme che negli ultimi anni sta vivendo una primavera unica. Così esordisce Don Gionatan De Marco, Direttore Ufficio nazionale per la Pastorale del tempo libero, turismo e sport della Conferenza Episcopale Italiana, in questa profonda e illuminante analisi, ricca di spunti e riflessioni per il futuro del turismo nel suo complesso. Un anticipo del suo intervento alla Giornata di Formazione per i gestori di strutture ricettive religioseche si terrà a Milano il prossimo 25 ottobre. 
Don Gionatan De Marco - Il turismo religioso, negli ultimi anni, sta vivendo una primavera unica.
Un fenomeno davvero curioso se si pensa alla liquidità della società e alla frammentazione della persona, eppure il “religioso”, lo “spirituale” è cercato, desiderato e vissuto. Evidentemente, la cultura contemporanea ha lavorato, senza saperlo, a far riscoprire all’uomo la nostalgia del Divino, a fargli sperimentare la fame di senso.
La domanda turistica è alla ricerca di nuovi orientamenti, in grado di restituire un nuovo senso del viaggio, basato sull’esperienza, in una rinnovata ricerca di autenticità, di fattori emozionali e sorprendenti, di recupero delle matrici culturali e di luoghi inusuali, lontani dalla massificazione e intrisi di spiritualità. Da questo punto di vista, il segmento turistico connesso a motivi devozionali – o più genericamente spirituali – non soltanto continua ad avere un messaggio da offrire, ma appare decisamente anticiclico, con tendenza ad un continuo aumento.
Le differenze con i pellegrinaggi delle epoche passate non sono poche. Se ciò che muoveva l’homo viator in epoca medievale e moderna era la meta, spesso cercata in una Basilica o Santuario significativo per la cristianità universale e locale, oggi ciò che muove le persone è la ricerca di un “luogo”. Nella società dei “non-luoghi”, infatti, le persone ricercano di sentirsi accolti e riconosciuti, in situazioni in cui le relazioni sappiano offrire calore, il patrimonio di cultura e tradizioni sappia stupire e le persone abbiano qualcosa da raccontare, meglio se di unico e significativo, per ritrovare se stessi e il senso di una vita affamata di speranza.

Quello del turismo religioso è un fenomeno multiforme.

L’aspetto spirituale è soltanto uno dei tasselli che ciascuno può inserire all’interno di un viaggio o una vacanza, del resto dedicati ad attività prettamente ricreative, non certo banalmente inquadrabili nei tradizionali pellegrinaggi: la figura del pellegrino e quella del visitatore appaiono sempre più come riferimenti ideali per indicare rispettivamente la religione e l’effimero, la solennità e la frivolezza, all’interno di uno spazio condiviso in cui non necessariamente sono alternativi.
Esiste un continuum tra religione e turismo, dove i pellegrini solenni dell’iconografia tradizionale sono affiancati da un pellegrino/visitatore, forse meno serio ma più esistenziale, o persino ricreativo, pur non necessariamente consumerista.
Gli ultimi dati certi rimangono quelli diffusi dall’Organizzazione Mondiale del Turismo che, insieme ai numeri offerti dall’Isnart, l’Istituto nazionale ricerche turistiche, offrono il senso di un mondo del travel salvato dai moderni pellegrini, in particolare cattolici. Un genere di visitatori che rappresenta l’1,5% dei flussi turistici complessivi dell’Italia e appartiene a ogni fascia d’età: lontani dagli stereotipi del pullman parrocchiale colmo di anziani diretti ad un Santuario, il 41,4% di chi viaggia per fede ha fra i 30 e i 50 anni.
Gli stranieri vengono per visitare Roma, ma anche Assisi, Padova, Pompei, Loreto, Oropa, San Giovanni Rotondo, Cascia e molte altre località, rivelando un potenziale di crescita enorme: le tradizioni e la cultura religiosa nel Bel Paese, con la presenza di importanti Santuari di riferimento e di antiche vie di storia, di cultura e di pellegrinaggio, non hanno eguali nel mondo.
Domanda - Gli aspetti principali di questo cambiamento che toccano l’offerta e con cui le strutture religiose devono confrontarsi.
Don Gionatan De Marco - Giovanni Paolo II ebbe a scrivere: «È necessaria una educazione individuale e collettiva al turismo, ovvero una profonda e convinta educazione umanistica all'accoglienza, al rispetto del prossimo, alla gentilezza, alla comprensione reciproca, alla bontà. Ed è necessaria anche una educazione ecologica, per il rispetto dell'ambiente e della natura, per il sano e sobrio godimento delle bellezze naturali, tanto riposanti ed esaltanti per l'anima assetata di armonia e di serenità. Ed è soprattutto necessaria un'educazione religiosa, affinché il turismo non turbi mai le coscienze e non abbassi mai lo spirito, ma anzi lo elevi, lo purifichi, lo innalzi al dialogo con l'Assoluto e alla contemplazione del mistero immenso che ci avvolge e ci attira».

Mi sembra che gli aspetti principali del cambiamento con cui le strutture religiose dovranno confrontarsi nei prossimi anni sono principalmente tre.

La domanda che non chiede più soltanto un ricovero ma una comunità ospitale. Non soltanto un giaciglio ma un’esperienza del “luogo”. Non una qualsiasi esperienza generica e standardizzata ma un’esperienza straordinaria e speciale, alimentata da una grande capacità di narrazione.

Il futuro si affaccia con dinamiche solo parzialmente vissute fino ad oggi.

Occorre dunque modificare con urgenza le fasi di progettazione, preparazione e realizzazione dei luoghi e dei prodotti turistici, individuando modelli di fruizione complessi e compositi, in grado di considerare fattori paesaggistici (ovvero la spiritualità dei luoghi, le attrattive ambientali, i patrimoni materiali e immateriali e le soddisfazioni psicofisiologiche che i viaggiatori ritengono di poter trarre visitando una località o un territorio), fattori strumentali a valore aggiunto (il complesso dei servizi offerti, in grado di trasformare una banale meta turistica in destinazione) e – su tutto – l’elemento umano, che contribuisce al posizionamento del prodotto e ne determina il senso e la qualità.
Le strutture religiose sono chiamate forse più delle altre a confrontarsi con questi cambiamenti di scenario, poiché rappresentano più di altri “il volto umano” dell’accoglienza e la spiritualità dei luoghi.
Domanda - Lo scenario futuro della domanda e dell’offerta di ospitalità religiosa.
Don Gionatan De Marco - La domanda, come si è detto, va nella direzione di richiedere una piena valorizzazione delle percezioni dei viaggiatori, in una dinamica sempre meno “standard” e sempre più diretta e personale. L’orientamento dell’offerta, di conseguenza, non potrà che essere quello di migliorare l’accoglienza, soprattutto dal punto di vista della relazione umana, nel rispetto del Creato.

Verso un turismo sempre più sostenibile.

Una strategia fertile per il futuro dovrebbe consistere nell’avvicinare l’etnografia itinerante all’etnografia locale: ovvero imparare ad accogliere le diversità, nel rispetto del punto di vista autoctono, di coloro che abitano i luoghi, alimentando le dinamiche relazionali (ed economiche) che sostengono entrambi. Da questo punto di vista, i Cammini sono paradigmatici. Non so dire quanto possa essere replicabile nel nostro Paese, ma credo che la domanda sia influenzata dall’esperienza del Cammino di Santiago, definita “quête” dai francesi e “búsqueda” dagli spagnoli e dai brasiliani, ovvero un viaggio di ricerca identitaria e di autoformazione, in cui la componente della riflessione su sé stessi è fondamentale, ma in una relazione aperta con i luoghi, con il prossimo e con l’alterità.
I Cammini, come le antiche Vie di pellegrinaggio e di culture, sono infrastrutture non soltanto carismatiche e ricche di suggestioni positive, ma modelli di integrazione organizzativa, sempre più necessari affinché le case di ospitalità religiosa siano integrate in una vera e propria “rete di comunità”.
Su tutto, immagino per il futuro debba essere tesorizzata la buona prassi dei Parchi Culturali Ecclesiali: iniziative di Chiesa, su base diocesana o interdiocesana, capaci di realizzare sistemi territoriali di riferimento per l’integrazione dei beni culturali, dei sistemi di accoglienza e delle strutture di ospitalità. Penso che il lavoro avviato da Mons. Mario Lusek sia stato visionario e profetico: il grande patrimonio di spiritualità che nel tempo la Chiesa ha realizzato, non disgiunto dai patrimoni d’arte e di cultura, può effettivamente diventare un cardine del sistema di accoglienza, narrazione, promozione e fruizione esperienziale dei diversi territori del nostro Paese.
Dove questi modelli si stanno avviando – generando un importante effetto “interno” alla diocesi, verso la realizzazione di una pastorale integrata, contribuendo a realizzare una Chiesa aperta e “in cammino” – sono già dimostrabili importanti risultati sul piano dello sviluppo turistico sostenibile, in piena sintonia tra aumento dei flussi di visitatori, tutela del Creato e benessere delle comunità locali (con riflessi non secondari sull’occupazione, in particolar modo dei giovani). Con la prospettiva di migliorare le prestazioni individuali e collettive in termini di accessibilità e di inclusività delle esperienze, verso un turismo “per tutti” che contenga una promessa e un orizzonte di senso per ciascuno.
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