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Non solo pellegrinaggi: Brevivet e l'evoluzione del turismo religioso


Diversificare il prodotto segmentando l’offerta per tipologia di target e puntare sempre di più verso i servizi di qualità. È il turismo religioso che si avvicina al 2020 visto dalla lente di un operatore storico del comparto come Brevivet, che si prepara ad affrontare la stagione con alcune novità, ma anche con il consolidamento del core business.

“I viaggi religiosi richiedono sempre più un’attenzione oltre che alla scelta dell’accompagnatore anche alla scelta dei servizi di qualità e richiedono un’attenzione alla programmazione della parte pastorale – spiega la direttrice dell’operatore, Barbara Chiodi (nella foto) -. Per questo noi abbiamo al nostro interno un sacerdote responsabile e collaboriamo con altri sacerdoti per la predisposizione di programmi pastorali che insieme allo svolgimento dell’itinerario facciano vivere un’esperienza unica”. 

Le cifre del business
Dopo un 2017 chiuso con quasi 14 milioni di euro di fatturato e circa25mila passeggeri, un risultato trainato dalla differenziazione del prodotto avviata alcuni anni fa con ilturismo culturale affiancato ai pellegrinaggi. “Ora nel catalogo 2018 – prosegue Chiodi – abbiamo inserito la sezione ‘cultura e religione’ che si aggiunge alle categorie già affermate di  pellegrinaggi e turismo culturale”. 

In questa categoria sono stati inseriti alcuni itinerari già consolidati ed alcuni nuovi itinerari. “Si è voluto inserire questa ulteriore distinzione – aggiunge - perché trattasi di viaggi tra cultura e religione che si differenziano per caratteristica della tipologia di accompagnamento (guida locale) e di impostazione delle visite sia dai pellegrinaggi che dal turismo culturale. Si desidera invogliare il viaggiatore a scoprire le opere che sono state frutto di una cultura religiosa e che sono divenute esse stesse cultura”. 

I 160 anni di Lourdes
Sul fronte dei pellegrinaggi, invece, protagonista sarà il 160esimo anniversario delle apparizioni di Lourdes, mentre nel turismo culturale tra le novità c’è ‘Roma mai vista’ dedicata alla Roma del Caravaggio e del Bernini. 

Per quanto concerne invece la distribuzione “con le agenzie stiamo fidelizzando il prodottoche si colloca in un target alla ricerca di itinerari che offrono il tutto compreso – conclude la direttrice -. Puntiamo i nostri sforzi su alcuni network selezionati e con le loro agenzie per sviluppare insieme la produzione nei loro territori e renderci disponibili a sviluppare programmi anche ad hoc”.
ttgitalia.com

Triduo Pasquale 2018 Vivere il Triduo Pasquale nel silenzio e nel ritiro del Sacro Monte Calvario di Domodossola

25 marzo: DOMENICA DELLE PALME
  • h. 10.00 S. Messa con benedizione degli ulivi alla Grotta di Lourdes, processione e canto del Passio
    • h. 15.00 Via Crucis della Parrocchia di Calice con partenza dalla Prima Cappella
    • h. 16.30 S. Messa con benedizione degli ulivi
    29 marzo: GIOVEDI’ SANTO
    • h. 18.00 S. MESSA DELL’ULTIMA CENA E LAVANDA DEI PIEDI. SEGUE RIPOSIZIONE DEL SS.MO SACRAMENTO NELL’ALTARE DELL’ADORAZIONE E ADORAZIONE EUCARISTICA;
      • h. 21.00 ADORAZIONE COMUNE E COMPIETA;
      • LA CAPPELLA DELL’ADORAZIONE (ORATORIO DELLA MADONNA ADDOLORATA, RIMANE APERTA, IN FORMA SOLENNE FINO ALLA MEZZANOTTE;
      30 marzo: VENERDI’ SANTO
      • h. 8.00 LODI MATTUTINE - h. 9.30 UFFICIO DELLE LETTURE E MEDITAZIONE - h. 12.10 ESAME DI COSCIENZA, ORA MEDIA E “PATER”;
      • h. 15.00 CELEBRAZIONE DELLA PASSIONE DEL SIGNORE E CANTO DEL “PASSIO”;
      • h. 20.30 SOLENNE “VIA CRUCIS” LUNGO LA “VIA REGIA” CON PARTENZA DALLA PRIMA CAPPELLA AI PIEDI DEL CALVARIO;
      • SEGUE IL CANTO DELLE “ULTIME SETTE PAROLE DI GESU’ SULLA CROCE”, LA BENEDIZIONE E IL BACIO DELLA RELIQUIA DELLA SANTA CROCE.
        31 marzo: SABATO SANTO
        • h. 8.00 LODI MATTUTINE - h. 9.30 UFFICIO DELLE LETTURE E MEDITAZIONE - h. 12.10 ESAME DI COSCIENZA, ORA MEDIA E “PATER”;
        • h. 22.00 SOLENNE VEGLIA PASQUALE DI RISURREZIONE.
          1 aprile: DOMENICA DI PASQUA Le Sante Messe seguono orario festivo:
          • h. 10.00 SANTA MESSA;
          • h. 16.45 ADORAZIONE EUCARISTICA, VESPRO E BENEDIZIONE.
          • h. 17.30 SANTA MESSA.
            2 aprile: LUNEDI’ TRA L’OTTAVA DI PASQUA (detto “dell’Angelo”)
            • h. 10.00 SANTA MESSA.
              Le liturgie saranno animate dalla Cappella Musicale del Sacro Monte Calvario: Schola Gregoriana, Convivium Musicum dei Polifonisti del Sacro Monte.
              Predicherà il triduo p. Pierluigi Giroli i.c.
              È possibile iscriversi per tutto o parte del Triduo con possibilità di pernottamento, vitto e alloggio, nonché di partecipazione alle liturgie e alle meditazioni. È anche possibile anticipare o prolungare la permanenza al di fuori dei giorni del Triduo Pasquale. Durante il Triduo si raccomanda di mantenere un clima di silenzio e di raccoglimento.

              "Quando la poesia incontra il segno" Sabato 9 Dicembre 2017 al Sacro Monte Calvario di Domodossola

              Sabato 9 Dicembre 2017 alle ore 16 presso la Sala Bozzetti del Sacro Monte Calvario di Domodossola sono di scena i “Fogli volanti” di Margherita Cassani e Daniela Denti:  fogli che nascono a partire dalle sollecitazioni dei poeti. Dal 2009, poesia e incisione s’incontrano in “Fogli volanti”, piccole edizioni d’arte con poesie inedite di poeti contemporanei.


              segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale

              Turismo religioso: dal Vaticano all’America Latina le immagini delle Vergini benedette dal Papa

              Cotal, la confederazione delle organizzazioni turistiche dell’America Latina, in questi giorni in visita a Roma dalSanto Padre con una delegazione guidata dal presidente Armando Bojórquez Patrón per enfatizzare l’aspetto del turismo religioso, riporterà nel continente americano alcune immagini delle Vergini, patrone di vari paesi dell’America Latina benedette dal Papa stesso.
              Le immagini torneranno in patria e saranno portate in pellegrinaggio a testimonianza dell’evento che ha visto per 100 ore la delegazione a contatto con Roma, le autorità laziali e la Santa Sede.
              «L’iniziativa per i 60 anni della nostra organizzazione- ha commentato Bojórquez Patrón – vedrò il culmine domani all’udienza con il Papa, durante la quale verranno benedette le immagine delle Vergini, patrone di diversi paesi latinoamericani. L’idea è che il prossimo marzo, in Argentina, quando si celebreranno i cinque anni di pontificato di Bergoglio, si inizi un percorso da Buenos Aires perché tutta l’America Latina, orgogliosa del “suo” Papa possa partecipare a questa processione che sarà guidata dalla “Virgen de Guadalupe”, imperatrice d’America e toccherà le capitali dei vari paesi».
              Il principale motivo del viaggio sarà di “mettere un cappello” sull’idea di concentrare gli sforzi turistici sul segmento religioso come tramite di un messaggio di pace, armonia, amore e integrazione fra i paesi americani,
              «Il turismo religioso è, senza dubbio – conclude Bojórquez Patrón – uno dei settori che maggiormente vengono promossi nei nostri paesi, e rappresenta uno spazio privilegiato per essere sviluppato, seguendo l’esempio della Santa Sede, che riceve milioni di visitatori ogni anno o come la Basílica de la Virgen de Guadalupe, che anch’essa è meta di milioni di visite annuali».
              travelquotidiano.com

              E se il pellegrinaggio fosse davvero una forma antica del «nuovo inizio»?


              Caro Avvenire, 
              alcune settimane fa ho partecipato a un pellegrinaggio di tre minuscoli paesi (Piovera – Grava – Alluvioni) nella pianura alessandrina, alla volta della Madonna della Guardia di Tortona. Presso il santuario della Cavallosa abbiamo cantato l’Ave Maria, che ha dato il senso al cammino, perché se è vero che il pellegrinaggio è camminare per il piacere di guadagnare una meta o gustare la natura e la magia dei suoi colori, è anche vero che il pellegrinaggio è sentirsi parte di una Compagnia grande, che “è” nella vita. E che incontri si fanno! F. gira il mondo per costruire case, capanne, pozzi, impianti... come volontario non di onlus o Ong ma a proprie spese; R., dirigente di una famosa marca di scarpe di alta moda; Ro., artigiano di oggetti preziosi di Valenza; c’era un sindaco, un’infermiera, una catechista, degli insegnanti... E mentre ci si conosceva e si avanzava nella strada, si dipanava l’evidenza di cosa è “il” pellegrinaggio: un Altro che cammina con noi, “Emmaus”! L’uomo medievale sapeva da dove veniva e dove andava e ha inventato il pellegrinaggio per ricordarselo! Oriana Fallaci ha scritto che l’uomo moderno negando Dio ha ucciso la parola “destino”. Ora negare che l’uomo abbia un destino è la più grande delle falsità! Il destino è una presenza che ci abbraccia ora, ogni giorno! Dopo 24.546 passi e circa 18 km siamo arrivati alla meta. Sono persuaso che se mai il «cambiamento d’epoca», di cui parla Papa Francesco, avverrà, si tratterà della riscoperta che Dio è amico dell’uomo e non un nemico, come troppo a lungo è stato nell’età moderna. I pellegrinaggi (che stanno nascendo numerosi) saranno una delle forme del nuovo inizio?

              Pippo Emmolo
              Alzarsi all’alba, recitare le Lodi, poi mettersi, con i compagni, in cammino. Questa lettera mi ha ricordato lo stupore provato percorrendo il Cammino inglese verso Santiago di Compostela. Credevo che si trattasse soltanto di camminare, di fare una fatica fisica, per aggiudicarsi una meta. Invece mi si è spalancato davanti un mondo. Quel levarsi prima del sorgere del sole e mettersi in strada alla luce delle torce: scoprendo, in aperta campagna, come i galli cantano, rochi, all’alba. Vedere il cielo che trascolora e da blu diventa rosa, mentre attorno il paesaggio, da oscuro, si fa sereno e domestico. (Scoprire per la prima volta che sollievo è, il levarsi del sole). E poi andare per strade e sentieri fangosi, dubitando sulla giusta direzione, fermandosi, domandando ai viandanti. Ottenendone, sempre, una benedizione in galiziano: «Che andiate con Dio!». Dio, già. Ha ragione il lettore, ogni pellegrinaggio è Emmaus, è un andare insieme, misteriosamente accompagnati. Cadenzando i passi lenti sulle parole del Rosario. Scorgendo, lungo la strada, cose che mai avresti notato passando in auto. Il verde delle prime foglie sulle siepi dei giardini, e certi fiori bianchi, candidi calici che spuntano, selvatici, purissimi, dal fango. Assaporando fin nel fondo dei polmoni il profumo della terra bagnata; assaggiando con la lingua le gocce fresche di una pioggia di acerba primavera. Perdersi poi, tornare indietro, cominciare a sentire i polpacci gonfi. Fermarsi per mangiare, nell’allegria che rende prelibato il pane col salame. Conoscere i tuoi compagni di viaggio: stupirti della varietà dei mestieri e delle vite che si sono incrociate, su questo stesso sentiero. Pregare, ancora, e ridere sotto a una pioggia che non vuole finire. Accamparsi la notte in un ostello, accucciarsi a dormire, così stanchi da non badare al freddo, e al pavimento duro. Con la sensazione interiore di non aver passato la giornata invano. Il lettore ha compiuto il suo pellegrinaggio nell’Alessandrino. «Dopo 24.546 passi e circa 18 km siamo arrivati alla meta», scrive. E ha ragione, un pellegrinaggio è qualcosa che ci ricorda da dove veniamo, e dove andiamo. È una forma che svela in trasparenza ciò cui realmente tendiamo. La fatica, somiglia a quella delle giornate lente, o dure. Ma c’è sempre, chiara, la certezza della meta – che invece, spesso, nei nostri giorni ci dimentichiamo. Quella certezza illumina e consola, anche quando si sbaglia strada, anche quando il fango sul sentiero è tanto che fatichi a procedere. E, i compagni? Scoprire in volti sconosciuti che la stessa domanda ci anima e ci spinge. Non sentirsi più soli. Che il pellegrinaggio, cammino del Medioevo, sia davvero la forma antica di un nuovo inizio? Noi uomini tecnologici, noi gente delle automobili turbo e degli aerei intercontinentali, scoprire che grazia è, per sentieri sperduti, semplicemente, umilmente camminare; con la letizia però di chi sa che va verso un destino buono, dove è atteso. 
              da Avvenire

              Gerusalemme dieci milioni di turisti dai 4 attuali che la città attira e non solo per turismo religioso

              Gerusalemme punta sugli individuali e sul brand “I Travel Jerusalem” per far conoscere non solo il lato storico della città, ma anche tutte le esperienze che essa può offrire, adatte ad ogni budget. Obiettivo attrarre dieci milioni di turisti dai 4 attuali, forte dei buoni risultati già avuti dal mercato italiano nel 2016, “con 10.500 presenze certificatedall’Associazione degli albergatori e già 10.000 registrate da inizio anno a settembre - racconta Ilanit Melchior, direttrice generale di Jerusalem Development Authority -. Per farlo si è sviluppata una strategia quinquennale declinata sulle esperienze che il singolo cliente può vivere e focalizzata sugli Fti. Lavorando su mercati come Italia, Germania e Russia abbiamo visto incrementi nella domanda. In due anni contiamo di registrare notevoli aumenti”.
              Sul fronte ricettivo Melchior spiega che “sono state aperte più di 1.000 camere negli ultimi anni e nei prossimi 4 ne sono previste altre 4.000, per un’offerta che spazia dai brand internazionali fino alle guest house e agli ostelli, prediletti dai tedeschi. Anche nella Città Vecchia si stanno riammodernando le strutture”, aggiunge la manager, che enumera in 30.549 le camere disponibili attualmente.
              A fine marzo arriverà poi il treno che collegherà l’aeroporto alla città in meno di 20 minuti. Dal lato degli operatori si punta sulla nuova edizione del voucher city break che include almeno 3 notti di soggiorno e commercializzato da diversi t.o, tra cui Mistral, GoAsia e Caleido e sul pacchetto dedicato ai Millenials: “Se li catturiamo - chiosa Melchior - saranno i nostri influencer”. Più di 60 musei, uno zoo, un acquario, Gerusalemme, che è stata inserita dal New York Times tra le dieci città dove sono maggiormente presenti startup, ha molte zone dove il wi-fi è gratis e un mercato che nato come un souk è oggi luogo di aggregazione. Ospiterà quest’anno il Giro d’Italia.
              guidaviaggi.it

              I monaci Vallombrosani di San Lanfranco e le attività culturali

              Domenica 12 novembre alle 15.30, l'Associazione Amici di Lanfranco terrà presso il Teatro San Riccardo Pampuri della Domus Pacis, in Via San Lanfranco Beccari a Pavia, un incontro su I monaci Vallombrosani di San Lanfranco e le attività culturali.
              La conferenza avrà come relatore il professor Gualtiero Tacchini, esperto della cultura dei monaci vallombrosani, fondatori del complesso abbaziale di San Lanfranco.
              La Congregazione vallombrosana è un ramo dell’ordine dei monaci benedettini fondato da san Giovanni Gualberto nel 1039, con sede principale l’abbazia di Vallombrosa, in provincia diFirenze.
              Dal 1039 al 1330 la diffusione dell’ordine in Italia ed Europa, sotto la guida dell'abate maggiore, fu simboleggiata dall'annuale raduno a Vallombrosa dei superiori e dallo scambio di monaci nelcentro e nord Italia fino alla Sardegna.
              Nel 1500 l'epoca della commenda, che vedeva la nomina come abate di un monastero di un estraneo da parte della sede apostolica, fu un periodo di profonda decadenza sia per le comunità che per la congregazione e, solo dopo il Concilio di Trento avvenne una ripresa spirituale e un grande sviluppo economico che lasciò una traccia profonda nelle abbazie vallombrosane.
              Con le successive soppressioni attuate dalle autorità statali, il 10 ottobre 1810 per la prima volta i monaci furono costretti ad abbandonare  l'abbazia di Vallombrosa e vi tornarono solo nel 1818 con15 sacerdoti e 16 fratelli.
              Inoltre i monaci vallombrosani persero anche il monastero di San Michele presso la badia diPassignano, che nella cripta conserva i resti di san Giovanni Gualberto in un antico reliquario.
              Nel 1866, come conseguenza delle leggi italiane riguardanti la soppressione degli istituti religiosi, ai monaci venne tolta nuovamente l'abbazia di Vallombrosa, che nel 1869 divenne la sede del primo Istituto Forestale d'Italia.
              I monaci dell’abbazia rimasero a Pescia, in provincia di Pistoia, fino a quando nel 1949 non tornarono a Vallombrosa dopo la concessione del monastero alla congregazione da parte delloStato.
              Dal 1986 il complesso è di nuovo dei monaci che l’hanno riportato agli antichi splendori.
              Da vedere sono il refettorio monastico con un’immensa Ultima cena dipinta dal Ghirlandaio e la cucina, ancora con gli arredi originari del Quattrocento.
              L'evento è nel contesto del progetto di turismo religioso Crocevia d’Europa tra Pavia, Lodi, Milano, Como, realizzato grazie al contributo di Regione Lombardia e Unioncamere Lombardia.
              L'ingresso sarà libero fino a esaurimento dei posti ed eventuali offerte verranno impiegate per proseguire i restauri dell'Abbazia di San Lanfranco in Pavia.
              paviafree.it

              Tra le meraviglie dell'Umbria. Sulle orme di Francesco



              Un libro illustrato del Touring illustra il Cammino sulle tracce del Santo. Tra foreste secolari, colline coperte di ulivi e città raccolte sui Colli. L'itinerario, e l'opera, nella sintesi dell'autore
              Foreste secolari, colline coperte di olivi, rupi aspre e selvagge, città raccolte sui colli. L’Umbria di oggi non è molto diversa dalla terra dove, esattamente otto secoli fa, si mossero i passi di Francesco. Circa 15 anni fa, grazie alla passione e al lavoro di appassionati dei cammini e della regione Umbria, è nata la Via di Francesco: un percorso che, in 22 tappe, collega il santuario della Verna a Roma, toccando tutti i luoghi fondamentali della storia francescana. Da Sansepolcro a Gubbio, da Assisi a Trevi, Spoleto e ai monasteri della valle di Rieti, questo viaggio di più di 430 chilometri attraversa paesaggi molto diversi, che portano dal silenzio delle foreste dell’appennino al mare di ulivi argentati della Valle Umbra, fino ai piedi delle rocce del Terminillo e ai dolci colli della Sabina. Lungo la via, s’incontrano eremi, alberi monumentali, monasteri, chiesette e castelli diruti dove la suggestione della predicazione, o dell’isolamento del patrono d’Italia sembrano essere ancora oggi ben presenti e forti nell’aria, nel rumore dell’acqua che scorre, nel canto degli uccelli. Chi ha percorso il ben più celebre Cammino di Santiago qui si troverà certamente a casa, anche se va detto che la Via di Francesco è a tratti decisamente più faticosa dello storico itinerario spagnolo a causa dei dislivelli molto più accentuati e dei saliscendi necessari per muoversi attraverso le colline umbre.

              Comunque, se affrontato con un certo allenamento, la giusta tranquillità e un’attrezzatura adeguata, la via di Francesco è un itinerario ragionevole e alla portata di chiunque abbia una certa dimestichezza con il camminare nella natura. In caso di stanchezza o problemi fisici, va ricordato che è facile spezzare il tragitto oppure concedersi un giorno di sosta in più, per poi avere la possibilità di riprendere il cammino con rinnovata lena ed entusiasmo. Questo percorso non presenta difficoltà particolari né problemi di segnaletica (anche se va detto che il tratto tra Rieti e Roma è decisamente meno segnalato e curato rispetto alle tappe umbre e laziali precedenti, anche se la situazione sta migliorando) e basta un po’ di attenzione per riuscire, giorno dopo giorno, a raggiungere tranquillamente la meta prefissata. L’importante, come sempre accade lungo cammini di questa lunghezza e di pari impegno, è dosare le forze e lasciare a casa la fretta: la lentezza e la costanza saranno certamente le due qualità che la via richiederà al camminatore. Come per i cammini più antichi e strutturati, anche su questo percorso esiste una Credenziale, cioè una specie di “passaporto” su cui il camminatore/pellegrino potrà far mettere un timbro ogni sera, come testimonianza del viaggio compiuto, per poi ricevere, una volta ad Assisi oppure a Roma, il Testimonium, cioè l’attestato ufficiale che certifica in latino il viaggio compiuto.
               
              Dalla nascita di questo itinerario a oggi molte cose sono cambiate tra le valli, i borghi e i colli della Toscana, dell’Umbria e del Lazio. La rete di accoglienza – che può essere “povera” per chi si accontenta di un letto a castello in una foresteria oppure più normalmente turistica tra alberghi, bed & breakfast o agriturismi – si è estesa sempre più. Così come la possibilità di fare la spesa, riposarsi con uno spuntino o sedersi alla tavola di una trattoria sul far della sera. I numeri e le statistiche di quest’ultimo anno fotografano infatti una situazione in rapida evoluzione: nel Sacro Convento di Assisi più di 7.000 camminatori hanno ritirato negli ultimi mesi il loro Testimonium e quindi, se sommiamo a questi anche tutti i pellegrini diretti a Roma, non è azzardato parlare di circa 15.000 presenze sulla via. Un numero non da poco, in grado di cambiare decisamente la vita dei più piccoli tra i borghi attraversati dall’itinerario francescano, e di rendere familiari a tutti le figure dei camminatori che, sul far della sera, passeggiano nei centri storici con i loro sandali e le facce scottate dal sole. Da notare anche la notevole presenza di camminatori stranieri: americani, tedeschi, brasiliani, francesi e inglesi costituiscono una parte importante del flusso di pellegrini, grazie anche alla presenza sul mercato di guide escursionistiche in inglese e tedesco. I tratti più battuti dell’itinerario sono certamente le tappe da Gubbio a Valfabbrica e da qui ad Assisi, che si raggiunge attraversando il maestoso bosco gestito dal FAI ai piedi della basilica, poi la salita verso l’Eremo delle Carceri e la lunga camminata sulle pendici del monte Subasio, che conduce a Spello e a Trevi. Senza dimenticare il percorso ad anello che, nella valle del Velino e a due passi da Rieti, congiunge in due o tre giorni di cammino i conventi francescani di Fonte Colombo, Greccio, Poggio Bustone e La Foresta.


              Le stagioni più adatte a una camminata di questo tipo sono la primavera e l’inizio dell’autunno, già che in estate il caldo può rendere faticoso il viaggio e l’inverno porta il freddo e spesso la neve alle quote più elevate. Non bisogna sottovalutare un cammino di questa portata: l’attrezzatura di chi si mette in viaggio dovrà essere adeguata, con scarpe da trekking, un buono zaino, giacche in pile e in goretex contro il maltempo, bastoncini telescopici da trekking per chi è abituato ad utilizzarli. E soprattutto con un po’ di allenamento, perché trovarsi a camminare 5 o 6 ore al giorno, per un periodo abbastanza lungo, sarà certamente faticoso e richiederà all’organismo uno sforzo di adattamento a un ritmo di vita particolare e inconsueto. Sulla Via di Francesco sono state pubblicate diverse guide, tra cui “La Via di Francesco” di Gianluigi Bettin e Paolo Giulietti (ed. San Paolo), “Di qui passò Francesco” di Angela Serracchioli (ed. Terre di Mezzo) e il taccuino/guida dedicato per camminatori alla via dal Touring Club Italiano. Molte le informazioni utili che si possono trovare in rete sul sito www.viadifrancesco.it, mentre www.francescosways.eu offre una serie di possibilità di alloggio, pacchetti organizzati di diversa durata o il servizio di trasporto dei bagagli da un punto tappa al seguente.
               
              Libro illustrato. La Via di Francesco, di Fabrizio Ardito ed edito da Touring, è un volume fotografico dedicato al cammino francescano e alle sue varianti in Toscana, Umbria e Lazio. Il libro è stato realizzato in collaborazione con la Regione Umbria e Sviluppumbria, è in libreria dal 15 ottobre. Pag. 160, 29,90 euro.

              Repubblica Viaggi


              "Il mondo è ancora tutto da esplorare. E da raccontare"


              «Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che basta a stesso. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi disfa...». Così il fotografo e scrittore svizzero Nicolas Bouvier in quel prezioso marchingegno letterario, troppo poco conosciuto, che è "La polvere del mondo" (Diabasis 2011).


              Il viaggio che ha fatto William Dalrymple, l’interprete più consapevole dell’ultima generazione di scrittori di viaggio del Novecento, è avvenuto nel 1986, non lontano dalle rotte seguite trent’anni prima dallo stesso Bouvier, che aveva raggiunto l’Afghanistan partendo da Belgrado. «Era il 1986 ed ero ancora uno studente all’Università di Cambridge», racconta all’Espresso Dalrymple, nato in Scozia nel 1956, ma residente da molti anni in India.



              «Fu allora che, inaspettatamente, ottenni una borsa di studio per intraprendere uno splendido viaggio sulle orme del mio eroe, Marco Polo». Riceve una somma consistente, 700 pound, che gli permette di raggiungere la Mongoliapartendo da Gerusalemme. «Rimane il viaggio più bello e importante della mia vita. Tre mesi ad attraversare enormi territori asiatici, mosso dalla certezza - quella di chi ha 21 anni - di essere invincibile».



              Il viaggio lo conduce da un estremità all’altra dell’Asia. E gli cambia per sempre la vita. Poco dopo essere rientrato in Inghilterra, Dalrymple riceve un invito dal pittore Derek Hill. «Un mio amico vuol vedere i reperti che hai trovato in Mongolia», gli anticipa Hill. L’amico è Bruce Chatwin. «Avevo letto il suo libro sulla Patagonia, che custodivo come un tesoro personale. In quel periodo stavo leggendo tutta la letteratura di viaggio, ma trovavo molti resoconti troppo cerebrali. Chatwin era diverso.



              E a differenza degli altri miei eroi letterari era lì, in carne e ossa, di fronte a me». L’incontro con l’autore di "Che ci faccio qui?" è ancora nitido nella memoria di Dalrymple. «Ricordo Chatwin come un ottimo conversatore, una mente brillante. Mi affascinava con la sua conoscenza, i suoi modi di fare disinvolti, le sue storie insolite. Pur non essendo gay, ne riconoscevo la carica seduttiva, il fascino. Volevo essere come lui». Anche nella scrittura.



              Dal lungo viaggio verso la Mongolia, nel 1989 William Dalrymple ricava un libro, tradotto in italiano come "Il Milione. Da Gerusalemme a Xanadu sulle orme di Marco Polo" (Rizzoli 1999). Viene accolto con entusiasmo. Sulla rivista The Spectator lo recensisce lo scrittore Patrick Leigh Fermor, che nel 1933, appena diciottenne, aveva lasciato l’Inghilterra per raggiungere a piedi Costantinopoli, con la vaga ambizione di «vivere come un pellegrino o un palmiere, o un chierico vagante».



              Un’autorità in ambito letterario, Leigh Fermor contribuisce a trasformare Il Milione in un libro di successo, descrivendolo come «erudito e comico», «toccato dagli spiriti di Alexander Kinglake, Robert Byron ed Evelyn Waugh». Mostri sacri della letteratura inglese di viaggio.



              William Dalrymple racconta all’Espresso che all’epoca guardava con venerazione soprattutto a Robert Byron. «Come in tutte le opere prime, nel mio libro era evidente l’ombra dei miti letterari. C’erano ovviamente i lavori di Bruce Chatwin, e poi A Short Walk in the Hindu Kush di Eric Newby e La via per l’Oxiana di Robert Byron, un testo che amo molto». Anche Bruce Chatwin venerava il testo di Robert Byron (1905-1941), «il gentleman, studioso ed esteta inglese che morì annegato nel 1941 per il siluramento della sua nave, mentre era diretto verso l’Africa occidentale». Definiva La via per l’Oxiana (Adelphi 1993) «un’opera di genio», «un testo sacro», e proprio seguendo con «ossequio servile» l’itinerario di Byron da Venezia a Kabul, Chatwin nel 1962, a 22 anni – «sei anni prima che gli hippies lo rovinassero» –, si reca in Afghanistan.



              Dove Byron aveva trovato «finalmente l’Asia senza complessi d’inferiorità». E dove Chatwin cerca invece «i nomadi che camminano avanti e indietro». William Dalrymple è forse l’ultimo erede di questa tradizione di viaggiatori e scrittori. Amanti ed esploratori di quella vasta area del mondo, dal Caucaso all’India, in cui la qualità della vita si misura dalla dolcezza dei meloni. Una tradizione fortunata, anche in termini commerciali. «La mia fortun a», spiega all’Espresso, «è di aver pubblicato il primo libro quando era in corso un vero e proprio revival della letteratura di viaggio, con autori come Eric Newby, Paul Theroux e ovviamente Bruce Chatwin che avevano fatto rinascere il genere». Rendendolo commercialmente florido. «La gente comprava quel genere di libri. Potevi farne una professione, come decise di fare Chatwin. Paul Theroux, con il suo The Great Railway Bazaar, aveva venduto 1 milione e mezzo di copie!».



              Una vera e propria età dell’oro della letteratura di viaggio. «È durata circa 15 anni, dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso agli anni Novanta. The Great Railway Bazaar di Theroux è del 1975, e inaugura quella stagione. In Patagonia di Chatwin è del 1977, così come Tempo di regali di Leigh Fermor. Il mio primo libro, Il Milione, è del 1989: sono riuscito a cavalcare l’ultima onda». Ormai infranta. Anche a causa del successo commerciale. «Il grande appetito per la letteratura di viaggio ne ha compromesso la rispettabilità, perché ha portato alla saturazione del mercato, con opere di livello infimo», continua Dalrymple.



              C’è chi, leggendo il declino dell’editoria di settore dentro una mutazione più ampia, è arrivato a decretare la morte della stessa letteratura di viaggio. Ne "Il turista nudo" (Adelphi 2006) l’inglese Lawrence Osborne sostiene per esempio che, in un mondo senza alterità, «l’idea stessa di viaggio è sorpassata», come già lamentava alla metà del Novecento l’antropologo Claude Lévi-Strauss in quel formidabile resoconto di viaggio che è "Tristi tropici". «Il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare», ribadisce Osborne. Il turismo ha trasformato il pianeta in uno spettacolo uniforme, «e ovunque si vada resta in bocca il saporaccio del simulacro». Dove tutto è uniforme, dice Osborne, non c’è più alterità. Senza alterità, non c’è viaggio. E senza viaggio, va da sé, non c’è letteratura di viaggio. Un genere estinto.



              William Dalrymple non è d’accordo. Più che a Lawrence Osborne guarda a Colin Thubron, l’autore – tra gli altri – di "Il cuore perduto dell’Asia" (Ponte alle Grazie 2014), per il quale «la letteratura di viaggio è oggi più necessaria che mai». «È finita l’epoca in cui potevi andare da un editore, raccontargli il progetto di un viaggio in Asia centrale e ricavarne un bel contratto. Ma la letteratura di viaggio continua a esistere, sotto forme diverse», precisa Dalrymple. Per il quale «un bravo scrittore può ancora fare dell’ottima letteratura di viaggio». Soprattutto se punta lo sguardo sulle persone, anziché sui luoghi: «Una volta la letteratura di viaggio riguardava soprattutto i luoghi, e in particolare i luoghi inaccessibili, remoti, lontani. Era come mettere le bandierine sulla mappa. Oggi invece riguarda più le persone, le diversità culturali, le incomprensioni reciproche. Qui c’è un grande spazio per la buona letteratura». Ma anche una grande sfida. Perché bisogna saper gestire la distanza, l’alterità. Oscillando tra empatia e recupero della distanza critica. «La buona letteratura di viaggio è assimilabile alla narrativa, ai buoni romanzi. Ma i buoni autori si contano sulle dita delle mani».



              Tra questi, cita Robert Macfarlane, l’autore di "Le antiche vie" (Einaudi 2013), «vero erede di Chatwin», Rory Stewart per "In Afghanistan" (Tea 2007) e, come esploratore e narratore delle idee, l’indiano Pankaj Mishra.
              Frustrata o soddisfatta che sia, ieri come oggi rimane viva quella che perfino il disincantato Osborne descrive come «la brama di alterità, la prova che noi non siamo la misura di tutte le cose».



              Per Dalrymple il viaggiare «ha un effetto liberatorio: più viaggi, e più comprendi che la tua cultura non è esclusiva, unica, liberandoti dai pregiudizi». Pregiudizi che sono centrali nel suo primo libro, «dove l’autore compara ogni cosa sulla sfondo della sua grande Civiltà con la C maiuscola», ammette ridendo Dalrymple, ma che vengono progressivamente meno nei successivi: Delhi. Un anno tra i misteri dell’India (Rizzoli 2001) e Dalla montagna sacra, un «viaggio alla scoperta della civiltà bizantina», come recita il sottotitolo (Bur 2001). Con Nove vite. Alla ricerca del sacro nell’India moderna (Adelphi 2011), pubblicato nel 2009, la prospettiva è invertita: se nel Milione l’argomento erano le avventure del narratore, e le persone incontrate venivano ridotte a oggetti sullo sfondo, con Nove vite il narratore rimane nell’ombra. Sulla scena, al suo posto, le vite di menestrelli ciechi, danzatori, cantori epici, monaci e creatori di idoli, ognuno a rappresentare «una forma diversa di devozione».



              Una devozione simile a quella che Dalrymple mette nelle ricerche preliminari ai suoi viaggi. Lo si può incontrare alla Jawaharlal Nehru University o alla Delhi University, negli archivi nazionali indiani, sommerso da libri, taccuini, appunti. Perché «non esiste un vademecum per i libri di viaggio». E il suo metodo è opposto rispetto a quello di viaggiatori come Nicolas Bouvier. Per lo scrittore svizzero, «la virtù di un viaggio è di purgare la vita prima di riempirla», partire con una «volontaria ignoranza».



              Dalrymple al contrario è mosso da un’inclinazione enciclopedica. Accumula note, studi, saperi e conoscenze: «prima di ogni partenza, passo mesi e mesi nelle biblioteche». Il processo di scrittura comincia già «nel corso del viaggio, quando prendi appunti e cominci a realizzare quali siano le storie che hai davanti, e quali forme assumeranno». I materiali raccolti sul campo e in biblioteca vanno poi passati al setaccio e combinati insieme. «È come tessere un tappeto, che ha disegni e intrecci differenti, da combinare in modo organico». Farlo non è semplice. È questione di limatura. Togliere, più che aggiungere. Come nella scultura. «Come cercare un diamante» in una miniera di appunti e conoscenze.



              E proprio a un diamante è dedicato il suo ultimo libro. Scritto insieme ad Anita Anand, fa seguito all’affascinante trilogia di romanzi storici dedicata alla Compagnia delle Indie orientali conclusa con I"l ritorno di un re. La battaglia per l’Afghanistan" (Adelphi 2015). Si intitola "Koh-i-noor: The Story of the World’s Most Infamous Diamond" ed è, a suo modo, anche questo un libro di viaggi. «Il viaggio del diamante Koh-i-noor, dal Trono del pavone dei Moghul alla corona della regina Vittoria, tra storia e mitologia, colpi di scena e rivendicazioni».

              Repubblica Viaggi

              La nuova dimensione del Turismo Religioso



              Quello del turismo religioso è un fenomeno multiforme che negli ultimi anni sta vivendo una primavera unica. Così esordisce Don Gionatan De Marco, Direttore Ufficio nazionale per la Pastorale del tempo libero, turismo e sport della Conferenza Episcopale Italiana, in questa profonda e illuminante analisi, ricca di spunti e riflessioni per il futuro del turismo nel suo complesso. Un anticipo del suo intervento alla Giornata di Formazione per i gestori di strutture ricettive religioseche si terrà a Milano il prossimo 25 ottobre. 
              Don Gionatan De Marco - Il turismo religioso, negli ultimi anni, sta vivendo una primavera unica.
              Un fenomeno davvero curioso se si pensa alla liquidità della società e alla frammentazione della persona, eppure il “religioso”, lo “spirituale” è cercato, desiderato e vissuto. Evidentemente, la cultura contemporanea ha lavorato, senza saperlo, a far riscoprire all’uomo la nostalgia del Divino, a fargli sperimentare la fame di senso.
              La domanda turistica è alla ricerca di nuovi orientamenti, in grado di restituire un nuovo senso del viaggio, basato sull’esperienza, in una rinnovata ricerca di autenticità, di fattori emozionali e sorprendenti, di recupero delle matrici culturali e di luoghi inusuali, lontani dalla massificazione e intrisi di spiritualità. Da questo punto di vista, il segmento turistico connesso a motivi devozionali – o più genericamente spirituali – non soltanto continua ad avere un messaggio da offrire, ma appare decisamente anticiclico, con tendenza ad un continuo aumento.
              Le differenze con i pellegrinaggi delle epoche passate non sono poche. Se ciò che muoveva l’homo viator in epoca medievale e moderna era la meta, spesso cercata in una Basilica o Santuario significativo per la cristianità universale e locale, oggi ciò che muove le persone è la ricerca di un “luogo”. Nella società dei “non-luoghi”, infatti, le persone ricercano di sentirsi accolti e riconosciuti, in situazioni in cui le relazioni sappiano offrire calore, il patrimonio di cultura e tradizioni sappia stupire e le persone abbiano qualcosa da raccontare, meglio se di unico e significativo, per ritrovare se stessi e il senso di una vita affamata di speranza.

              Quello del turismo religioso è un fenomeno multiforme.

              L’aspetto spirituale è soltanto uno dei tasselli che ciascuno può inserire all’interno di un viaggio o una vacanza, del resto dedicati ad attività prettamente ricreative, non certo banalmente inquadrabili nei tradizionali pellegrinaggi: la figura del pellegrino e quella del visitatore appaiono sempre più come riferimenti ideali per indicare rispettivamente la religione e l’effimero, la solennità e la frivolezza, all’interno di uno spazio condiviso in cui non necessariamente sono alternativi.
              Esiste un continuum tra religione e turismo, dove i pellegrini solenni dell’iconografia tradizionale sono affiancati da un pellegrino/visitatore, forse meno serio ma più esistenziale, o persino ricreativo, pur non necessariamente consumerista.
              Gli ultimi dati certi rimangono quelli diffusi dall’Organizzazione Mondiale del Turismo che, insieme ai numeri offerti dall’Isnart, l’Istituto nazionale ricerche turistiche, offrono il senso di un mondo del travel salvato dai moderni pellegrini, in particolare cattolici. Un genere di visitatori che rappresenta l’1,5% dei flussi turistici complessivi dell’Italia e appartiene a ogni fascia d’età: lontani dagli stereotipi del pullman parrocchiale colmo di anziani diretti ad un Santuario, il 41,4% di chi viaggia per fede ha fra i 30 e i 50 anni.
              Gli stranieri vengono per visitare Roma, ma anche Assisi, Padova, Pompei, Loreto, Oropa, San Giovanni Rotondo, Cascia e molte altre località, rivelando un potenziale di crescita enorme: le tradizioni e la cultura religiosa nel Bel Paese, con la presenza di importanti Santuari di riferimento e di antiche vie di storia, di cultura e di pellegrinaggio, non hanno eguali nel mondo.
              Domanda - Gli aspetti principali di questo cambiamento che toccano l’offerta e con cui le strutture religiose devono confrontarsi.
              Don Gionatan De Marco - Giovanni Paolo II ebbe a scrivere: «È necessaria una educazione individuale e collettiva al turismo, ovvero una profonda e convinta educazione umanistica all'accoglienza, al rispetto del prossimo, alla gentilezza, alla comprensione reciproca, alla bontà. Ed è necessaria anche una educazione ecologica, per il rispetto dell'ambiente e della natura, per il sano e sobrio godimento delle bellezze naturali, tanto riposanti ed esaltanti per l'anima assetata di armonia e di serenità. Ed è soprattutto necessaria un'educazione religiosa, affinché il turismo non turbi mai le coscienze e non abbassi mai lo spirito, ma anzi lo elevi, lo purifichi, lo innalzi al dialogo con l'Assoluto e alla contemplazione del mistero immenso che ci avvolge e ci attira».

              Mi sembra che gli aspetti principali del cambiamento con cui le strutture religiose dovranno confrontarsi nei prossimi anni sono principalmente tre.

              La domanda che non chiede più soltanto un ricovero ma una comunità ospitale. Non soltanto un giaciglio ma un’esperienza del “luogo”. Non una qualsiasi esperienza generica e standardizzata ma un’esperienza straordinaria e speciale, alimentata da una grande capacità di narrazione.

              Il futuro si affaccia con dinamiche solo parzialmente vissute fino ad oggi.

              Occorre dunque modificare con urgenza le fasi di progettazione, preparazione e realizzazione dei luoghi e dei prodotti turistici, individuando modelli di fruizione complessi e compositi, in grado di considerare fattori paesaggistici (ovvero la spiritualità dei luoghi, le attrattive ambientali, i patrimoni materiali e immateriali e le soddisfazioni psicofisiologiche che i viaggiatori ritengono di poter trarre visitando una località o un territorio), fattori strumentali a valore aggiunto (il complesso dei servizi offerti, in grado di trasformare una banale meta turistica in destinazione) e – su tutto – l’elemento umano, che contribuisce al posizionamento del prodotto e ne determina il senso e la qualità.
              Le strutture religiose sono chiamate forse più delle altre a confrontarsi con questi cambiamenti di scenario, poiché rappresentano più di altri “il volto umano” dell’accoglienza e la spiritualità dei luoghi.
              Domanda - Lo scenario futuro della domanda e dell’offerta di ospitalità religiosa.
              Don Gionatan De Marco - La domanda, come si è detto, va nella direzione di richiedere una piena valorizzazione delle percezioni dei viaggiatori, in una dinamica sempre meno “standard” e sempre più diretta e personale. L’orientamento dell’offerta, di conseguenza, non potrà che essere quello di migliorare l’accoglienza, soprattutto dal punto di vista della relazione umana, nel rispetto del Creato.

              Verso un turismo sempre più sostenibile.

              Una strategia fertile per il futuro dovrebbe consistere nell’avvicinare l’etnografia itinerante all’etnografia locale: ovvero imparare ad accogliere le diversità, nel rispetto del punto di vista autoctono, di coloro che abitano i luoghi, alimentando le dinamiche relazionali (ed economiche) che sostengono entrambi. Da questo punto di vista, i Cammini sono paradigmatici. Non so dire quanto possa essere replicabile nel nostro Paese, ma credo che la domanda sia influenzata dall’esperienza del Cammino di Santiago, definita “quête” dai francesi e “búsqueda” dagli spagnoli e dai brasiliani, ovvero un viaggio di ricerca identitaria e di autoformazione, in cui la componente della riflessione su sé stessi è fondamentale, ma in una relazione aperta con i luoghi, con il prossimo e con l’alterità.
              I Cammini, come le antiche Vie di pellegrinaggio e di culture, sono infrastrutture non soltanto carismatiche e ricche di suggestioni positive, ma modelli di integrazione organizzativa, sempre più necessari affinché le case di ospitalità religiosa siano integrate in una vera e propria “rete di comunità”.
              Su tutto, immagino per il futuro debba essere tesorizzata la buona prassi dei Parchi Culturali Ecclesiali: iniziative di Chiesa, su base diocesana o interdiocesana, capaci di realizzare sistemi territoriali di riferimento per l’integrazione dei beni culturali, dei sistemi di accoglienza e delle strutture di ospitalità. Penso che il lavoro avviato da Mons. Mario Lusek sia stato visionario e profetico: il grande patrimonio di spiritualità che nel tempo la Chiesa ha realizzato, non disgiunto dai patrimoni d’arte e di cultura, può effettivamente diventare un cardine del sistema di accoglienza, narrazione, promozione e fruizione esperienziale dei diversi territori del nostro Paese.
              Dove questi modelli si stanno avviando – generando un importante effetto “interno” alla diocesi, verso la realizzazione di una pastorale integrata, contribuendo a realizzare una Chiesa aperta e “in cammino” – sono già dimostrabili importanti risultati sul piano dello sviluppo turistico sostenibile, in piena sintonia tra aumento dei flussi di visitatori, tutela del Creato e benessere delle comunità locali (con riflessi non secondari sull’occupazione, in particolar modo dei giovani). Con la prospettiva di migliorare le prestazioni individuali e collettive in termini di accessibilità e di inclusività delle esperienze, verso un turismo “per tutti” che contenga una promessa e un orizzonte di senso per ciascuno.
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