Antonio Rosmini era conosciuto per essere uno degli ingegni più fervidi della Chiesa del suo tempo. Anche se vide messo all’Indice il suo libro Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, ebbe la stima dei papi dell’epoca e di santi come don Bosco. La sua religiosità si esprimeva nel lasciare a Dio di indicare la Sua volontà attraverso le circostanze esteriori esaminate al lume della ragione e della fede
di Giovanni Ricciardi - in 30giorni.it
«Se Ella pensa di cominciare con una piccola cosa e lasciare tutto il resto al Signore noi approviamo e siamo ben contenti che Ella faccia». A queste parole del papa Pio VIII, Antonio Rosmini capì che l’idea da lui concepita di fondare una nuova congregazione religiosa era davvero volontà di Dio. Siamo nel maggio 1829. Rosmini aveva allora 32 anni, otto di sacerdozio, e già era conosciuto come uno degli ingegni più fervidi della Chiesa del tempo. Era stato introdotto negli ambienti intellettuali di quella Milano che fu la culla del Romanticismo italiano. Aveva incontrato e frequentato Niccolò Tommaseo e Alessandro Manzoni. Aveva ottenuto la stima e l’affetto di Maddalena di Canossa, fondatrice delle Figlie della Carità, recentemente canonizzata (1988). Tutti vedevano in lui uno spirito straordinario, lo esortavano a mettere in opera grandi progetti. E lui aveva riflettuto, pregato, immaginato per tanto tempo. Ma solo dopo quell’udienza gli fu chiaro che doveva incominciare davvero.
Era nato il 24 marzo del 1797, secondogenito di Piermodesto Rosmini Serbati, patrizio del Sacro Romano Impero, e di Giovanna, dei conti Formenti di Biacesa sul Garda. Nobiltà d’antico lignaggio. Ingegno, propensione agli studi filosofici, una giovinezza permeata di una cultura aperta a una dimensione europea. Ma il giovane Antonio, deludendo le aspettative dei genitori, aveva deciso di farsi sacerdote. Frequentò teologia a Padova, dove insegnava il futuro papa Gregorio XVI che approverà, nel 1838, la regola del suo Istituto. Dopo l’ordinazione, un giovane prete di quella levatura sociale e intellettuale avrebbe potuto aspirare a una brillante carriera ecclesiastica, magari accademica. Ma percepiva il pericolo di questa posizione. «Proprio questo suo tendere e darsi così agli interessi culturali» scrive Remo Bessero Belti, biografo di Rosmini, «poteva essere una “tentazione” per il giovane Rosmini […] il pericolo della “superbia”, non della carne ma dello spirito. Dio lo preservò da questo, dobbiamo proprio dire. Ce lo fa pensare una sua annotazione del 1813, veramente straordinaria per un giovane di 16 anni: “1813. Quest’anno fu per me anno di grazia: Iddio mi aperse gli occhi su molte cose e conobbi che non vi era altra sapienza che in Dio”» (R. Bessero Belti, Antonio Rosmini. Profilo biografico, Domodossola 1997, p. 5).
I primi anni del suo ministero a Rovereto (Trento) erano stati un periodo di raccoglimento, dedicati alla preghiera e allo studio. Iniziava però a raccogliere intorno a sé alcuni sacerdoti per tenere loro delle letture della Summa theologica di san Tommaso. «In quel clima storico e culturale era un fatto quasi inconcepibile, un ritorno alla grande tradizione della Chiesa» spiega monsignor Clemente Riva, rosminiano e studioso di Rosmini, già vescovo ausiliare di Roma.
Poi, l’invito a dar vita a un istituto religioso. È proprio Maddalena di Canossa a proporlo a Rosmini, esortandolo a fondare il ramo maschile delle sue Figlie della Carità. Rosmini ringrazia, riflette, ma non passa all’opera. Sono gli anni in cui matura in lui un desiderio vivissimo di corrispondere alla volontà di Dio senza metterci nulla di suo, lasciando a Lui l’iniziativa. Lo chiamerà Dio, se vuole, quando vuole. Prende forma, nella spiritualità di Rosmini, il cosiddetto “principio di passività”. «Quanto al resto» così lo spiega il Belti «studio, attività, lavoro, condizione di vita, non sceglierà da sé, non sceglierà questa o quella condizione di vita, questa o quella attività, e neppure un’opera di carità piuttosto che un’altra: lascerà a Dio di indicargliela attraverso le circostanze esteriori “esaminate al lume della ragione e della fede”» (op. cit., p. 6). È Dio che agisce, insomma.
Nel 1827 a Milano conosce un giovane sacerdote francese, Giovanni Battista Loewenbruck, «robusto, biondo, vivace, con sul corpo i segni delle dure battaglie, anche cruente, in favore degli operai parigini, sfruttati ed abbrutiti, che egli istruiva, confortava ed aiutava, appoggiandone i diritti». E attraverso questo incontro capisce che è il momento di chiedere a Dio che cosa vuole da lui. Gli viene indicato un santuario, vicino Domodossola (Verbania), il Sacro Monte Calvario, e i due si ripromettono di trascorrervi insieme la Quaresima del 1828, in ritiro e preghiera. Ma il Loewenbruck lo raggiungerà lassù solo dopo Pasqua. In quei mesi, nella solitudine, Rosmini getta le fondamenta del suo Istituto. Per il momento, da solo. Più tardi raccoglierà intorno a sé i primi compagni e le prime critiche per quella scelta che lo “escludeva” dal ritorno nella buona società e nei salotti milanesi. «Gli amici rimpiangono il bene che avrebbe potuto fare in mezzo al mondo col suo impegno e fascino spirituale. Qualcuno dice anche che è “impazzito” ed egli risponde: “Se questa è pazzia sono contento di esserlo per Cristo”» (P. Rinaldo Nave, Profilo biografico di Antonio Rosmini, Rovereto 1996, pag. 15).
Poi, il viaggio a Roma, il colloquio col Papa, l’approvazione verbale, l’invito ad andare avanti senza però rinunciare agli studi filosofici. Anzi, questa è per Pio VIII ancora la sua prima missione: «È volontà di Dio che Ella si occupi nello scriver libri. Tale è la sua vocazione. La Chiesa al presente ha gran bisogno di scrittori, dico di scrittori solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugli uomini non rimane oggi altro mezzo che quello di prenderli con la ragione e per mezzo di questa condurli alla religione. Si tenga certo che Ella potrà arrecare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandosi nello scrivere che non esercitando qualunque opera del sacro ministero».
Rosmini ubbidirà entusiasta mentre si dedica a porre le fondamenta dell’Istituto della Carità. Non immagina che proprio quello “scriver libri” raccomandatogli da un papa sarebbe stato l’origine del suo calvario, in vita e post mortem, per gli attacchi che gli verranno lanciati da allora in poi, specie da dentro la Chiesa.
Una prima difficoltà nasce al momento dell’approvazione delle Costituzioni. I problemi che iniziava ad avere con il governo austriaco lo portarono a definire il voto di povertà per i membri del suo Istituto come puro distacco spirituale dai beni. A fronte di ciò, Rosmini prevedeva che i suoi discepoli potessero possedere beni e case anche a titolo personale. Il suo timore era che, in tempi di persecuzione, i governi avrebbero potuto confiscare i beni ecclesiastici. Aveva visto giusto, intuendo “profeticamente” quello che sarebbe accaduto in Italia pochi decenni più tardi. I Rosminiani costituivano una libera associazione di cittadini che mantenevano tutti i loro diritti, compreso quello di possedere: di fatto, proprietari delle case e dei collegi erano i singoli religiosi che, alla morte, lasciavano per testamento i loro beni a un confratello. Questo schema, approvato con difficoltà a Roma, servirà poi ad altri istituti per fondarsi e sussistere anche dopo la legge Rattazzi sul sequestro dei beni della Chiesa in Italia. Ad esso si ispirò anche don Bosco per i suoi Salesiani. Don Bosco, dopo aver conosciuto Rosmini, dirà di lui: «Non ricordo di aver visto un prete dire la Messa con tanta devozione e pietà come il Rosmini. Si vedeva che aveva una fede vivissima, da cui proveniva la sua carità, la sua dolcezza, la sua modestia e gravità esteriore».
Nel frattempo il suo Istituto si diffonde prima in Inghilterra e poi in Irlanda. Un giovane scozzese, William Lockhart, amico e discepolo prediletto di John Henry Newman, capo del movimento di Oxford (movimento religioso che aveva lo scopo di promuovere il riavvicinamento dell’anglicanesimo alla Chiesa cattolica), incontrando i Padri Rosminiani si convertì al cattolicesimo. Newman ne rimase molto colpito, così come quando Lockhart gli fece leggere le Massime di perfezione cristiana, il testo chiave della spiritualità rosminiana. Così Rosmini, pur se indirettamente, ebbe un ruolo nella conversione di Newman, anche se i due non si conobbero mai personalmente.
Rosmini continua dunque a scrivere, pubblicando nel 1839 il Trattato della coscienza morale. È quest’ultima opera a dare occasione alla prima polemica sulle sue dottrine. Esce a ruota un libello anonimo a firma di un non meglio identificato “Eusebio Cristiano”, che accusa Rosmini in un modo che più tardi Pio IX definirà «vile, basso, triviale, senza segno di carità». Rosmini si decide a rispondere di persona; teme di non essere stato chiaro nell’esposizione delle sue dottrine. Ma si accorgerà subito che la questione non era “scientifica”, e da allora in poi non risponderà più.
La polemica s’infiamma e i Gesuiti si schierano decisamente contro Rosmini, tanto che nel 1843 Gregorio XVI interviene sul caso imponendo il silenzio tanto a Rosmini quanto al superiore generale della Compagnia di Gesù. Ma le cose non finiscono lì. Rosmini accetta e continua la sua opera di scrittore. In quegli anni confida in una lettera ad un amico: «Quanto a quello che dite dei feroci morsi che mi danno molti, è a ringraziare il Signore, non punto a sgomentarsene. Il Signore lo permette, e non possono trapassare la linea che Egli ha loro prescritta; e questa linea la disegna la sua sapienza infinita, la sua infinita bontà. Di questo sì vi prego, che mi abbiate presente innanzi all’altare del Signore, ottenendomi da lui la grazia di non offenderlo, né dando così altrui giusta cagione di rampogna. Quando Iddio mi facesse questa sola grazia nella sua immensa misericordia, confido che l’anima mia altro sentimento non proverebbe che di allegrezza per quanto avviene e fanno gli uomini». La pubblicazione del suo famoso saggio Delle cinque piaghe della Santa Chiesa è di poco precedente una delicata missione diplomatica che Carlo Alberto gli affida presso Pio IX, su consiglio di Gioberti, nell’aprile del 1848. Gli attacchi contro di lui si stanno di nuovo moltiplicando. Ciononostante Pio IX lo accoglie con affetto e gli preannunzia il cardinalato. Sarebbe stato nel concistoro del dicembre di quello stesso anno. Ma l’Austria è contraria e Rosmini è sempre più criticato. Del cardinalato non si farà nulla. A Rosmini viene negata la possibilità di incontrare nuovamente il Papa, le udienze gli vengono rinviate con ogni sorta di pretesto. «E intanto» scrive Belti «le ombre sulle sue dottrine si addensano sempre di più. Pio IX si mostra gravemente preoccupato: nell’aprile 1849 scrive a Rosmini: “Con paterno affetto la esortiamo a riflettere sopra le opere da lei stampate, per modificarle, o correggerle, o ritrattarle”» (op. cit., p. 17). Rosmini è «nelle più fitte tenebre» come scriverà egli stesso. Invia subito una lettera al Papa: «Beatissimo Padre, io bramo modificare tutto ciò che ci fosse da modificare nelle mie opere, di correggere tutto ciò che ci fosse da correggere, di ritrattare tutto ciò che ci fosse da ritrattare […]. Io voglio appoggiarmi in tutto sull’autorità della Chiesa, e voglio che tutto il mondo sappia che a questa sola autorità io aderisco, che mi compiaccio delle verità da essa insegnatemi, che mi glorio di ritrattare gli errori in cui potessi essere incorso alle infallibili sue decisioni». Se questa lettera, consegnata alla nunziatura di Napoli, sia mai giunta nelle mani di Pio IX, non è dato sapere. Rimase tuttavia senza risposta. A giugno di quello stesso anno Delle cinque piaghe della Santa Chiesa è messo all’Indice.
Gli ultimi anni Rosmini li dedica soprattutto alla cura e alla promozione della sua Congregazione, che vorrebbe tenere lontana dagli attacchi alla sua persona. È la sofferenza che più lo angustia: «D’una sola cosa» scriverà «ho qualche pena, ed è il vedere quale grave danno soffra l’Istituto della Carità dall’avere un capo che così fu trattato, e che tuttora è tenuto sotto un processo di cui parla tutto il mondo, che lo copre d’una nube di sospetti, e che, a quanto mi si scrive, non si pensa punto di risolvere con celerità, anzi di tener sospeso e protrarre indefinitamente. Ma Iddio conosce i tempi e i momenti e perciò non finirò mai di benedirlo anche di questo».
Ma le accuse e i libelli anonimi continueranno ininterrotti fino alla sua morte, nonostante il Sant’Uffizio finisca per assolvere pienamente Rosmini nel 1854, con una formula su cui i suoi avversari giocheranno per portare Rosmini alla condanna post obitum delle famose “quaranta proposizioni” nel 1888. «La dichiarazione» spiega monsignor Riva «diceva: dimittantur opera omnia Antonii Rosmini, cioè: si lascino libere queste opere d’esser pubblicate e studiate. Il che non vuol dire che siano infallibili, ma che sono senza pericoli per la dottrina della fede. Successivamente invece, quella corrente che era ostile a Rosmini ha continuato a osteggiare il suo pensiero, fino ad arrivare ad interpretare questo dimittantur come un “non vogliamo prendere nessuna decisione in merito al pensiero di Rosmini”».
«Dal timore di essere umiliato, liberami o Gesù», recita un’antica preghiera monastica. Questo fu per Rosmini letteralmente vero. Le sue parole del 1852 non lasciano adito a dubbi: «Il pensiero che tutto ciò che accade è volontà di Dio, è così dolce che basta da sé solo a renderci pienamente tranquilli e contenti […]. Io non posso finire di ringraziare il Signore, che fa intendere questa consolantissima verità; e mi sento così felice della mia umiliazione, che non vorrei uscirne, se non fosse per uniformarmi di nuovo al divino volere».
Quando, nel 1855, Manzoni giunge a Stresa (Verbania) al capezzale dell’amico ormai vicino alla morte, mormora tra le lacrime: «Speriamo che il Signore la voglia conservare ancora tra noi, e darle tempo di condurre a termine tante belle opere che ha cominciate, la sua presenza tra noi è troppo necessaria». E Rosmini risponde: «No, no, nessuno è necessario a Dio: le opere che Egli ha cominciate, Egli le finirà con quei mezzi che ha nelle mani, che sono moltissimi, e sono un abisso al quale noi possiamo solo affacciarci per adorare. Quanto a me, sono del tutto inutile, temo anzi di essere dannoso; e questo timore, non solo mi fa essere rassegnato alla morte, ma me la fa desiderare».
Morì il 1 luglio del 1855. Come gli aveva detto Pio VIII, dopo aver cominciato con “una piccola cosa”, aveva imparato a lasciare tutto il resto al Signore.