– Sorprende e, quasi commuove, quando si visita e sosta nei monasteri, l’ospitalità.
Nella seconda metà del IV secolo, il monaco Giovanni Cassiano, grande viaggiatore, fu uno dei primi a prendere contatto con i monaci del deserto in Egitto e a trasportare questa antica tradizione nella Gallia meridionale. Scriveva: «Siamo andati a visitare un vecchio che ci fece mangiare. Benché fossimo sazi, ci invitava a prendere ancora qualche cosa. Gli risposi che non volevo più niente. Allora mi disse: “Ho apparecchiato sei volte la tavola oggi per ricevere fratelli di passaggio. Ho mangiato io pure sei volte per incoraggiarli e ho ancora fame. E tu che hai mangiato solo una volta, sei talmente sazio che non puoi prendere più niente?”».
Questo aneddoto umoristico ci dice molto del comportamento dei primi monaci. Quella sorella o quel fratello incaricato oggi dell’accoglienza delle nostre abbazie avrebbe una carità così grande – e lo stomaco così solido – da osare la concorrenza con il vecchio citato da Cassiano? La generosità nell’accoglienza non fu soltanto un privilegio delle origini. Viene riportato che nel VI secolo, nei pressi di Betlemme, san Teodoro, il cenobiarca, costruttore di un grande monastero, aveva edificato tre ospizi e una locanda dove fino a «cento volte al giorno si apparecchiava la tavola».
Ci si può interrogare. Perché dei monaci, la più parte del tempo gelosamente caro alla loro solitudine e alla loro austerità, sono stati così sensibili all’accoglienza e così fedeli nel metterla in pratica? La risposta più breve e più illuminante la trovo in un altro apoftegma ,che mette in scena una grande figura del monachesimo egiziano: «Un fratello va a vedere l’abate Poemen durante la Quaresima. Dopo averlo consultato su questi pensieri, disse subito al vecchio: “Esitavo a venire in questo momento. Mi dicevo che durante la Quaresima tu vivevi forse come recluso”. Il vecchio gli rispose: “Non mi è mai stato insegnato a tenere chiusa una porta di legno, ma piuttosto la porta della mia lingua”» (L’Evangile du desert, 120).
Benché la vita monastica sia anteriore al cristianesimo di parecchi secoli, in particolare nell’induismo e nel buddhismo, il monaco cristiano ha come riferimento assoluto la parola di Dio. Volendo essere fedele a Gesù Cristo, suo Signore, il monaco sa che l’ascesi e le regole più fondamentali devono essere sottomesse alla regola suprema della carità, di cui l’accoglienza dell’altro – fratello, straniero, malato – è una delle prove più irrefutabili: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato (…). Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,40).
Di certo, resta sempre in primo piano nella coscienza del monaco la descrizione profetica del giudizio finale: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35).
Per il fatto che frequenta assiduamente le sante Scritture, il monaco sa – anche nella solitudine più estrema – che non si può separare l’amore di Dio dall’amore dell’uomo, l’ accoglienza di Dio dall’accoglienza dell’uomo. Insegnamento meravigliosamente espresso dall’abate Apollon, un vecchio del deserto egiziano, il quale diceva che bisogna inchinarsi davanti ai fratelli che arrivano, perché non è davanti a loro ma davanti a Dio che noi dobbiamo inginocchiarci: «Quando tu vedi tuo fratello, tu vedi il Signore tuo Dio. Lo abbiamo imparato da Abramo. E quando voi accogliete i fratelli, invitateli a prendere riposo. È quanto impariamo da Lot, che invita degli angeli».
Interessante notare che a fondamento di questa ospitalità che si deve a ogni uomo, come a Dio stesso, la sentenza fa riferimento non al Vangelo, ma all’Antico Testamento con due episodi celebri di ospitalità: l’episodio delle Querce di Mamre (Gen 18), dove Abramo, vedendo davanti a lui tre misteriosi personaggi, si prostra, lava i loro piedi e li ristora con quanto di migliore ha; e l’episodio di Sodoma (Gen 19), dove Lot, aprendo la porta della sua casa a stranieri, lo strappa dalla furia della folla. Nei due casi il racconto biblico ci rivela l’identità di coloro che erano stati in tal modo accolti: Dio stesso a Mamre; i due messaggeri (angeli) di Dio a Sodoma.
Ma è un passaggio del Nuovo Testamento che ci offre, in conclusione, la morale della storia: «Non dimenticate l’ospitalità perché è grazie ad essa che certuni senza saperlo hanno accolto degli angeli (Eb 13,1).
– Che cosa dice al riguardo la Regola di san Benedetto?
San Benedetto concorda pienamente con la tradizione anteriore e resta fedele allo stesso spirito. Ma la suaRegola, come in molti altri ambiti, manifesta chiaramente accenti che sono propri e testimoniano il suo senso profondamente evangelico.
È al capitolo 53 della sua Regola sull’accoglienza degli ospiti, come al capitolo 66 sui portinai del monastero, che egli ci dà il suo insegnamento sull’accoglienza. Per noi cistercensi, che fin dalle origini lo abbiamo come riferimento esplicito – è il testo della Regola di Benedetto che fonda e ispira la nostra pratica dell’ospitalità. Mi parrebbe importante sottolineare alcune note essenziali date da questa Regola; note che, per il loro valore permanente e universale, restano per noi sempre attuali.
– Può indicarcele?
La prima è questa: il monastero, casa di Dio per gli uomini. «Gli ospiti non mancano mai nel monastero e sopraggiungono a ogni ora» (Regola 53). Questa affermazione, che si crederebbe scritta oggi, ha quindici secoli. Esprime, infatti, una delle realtà più profonde del ruolo del monastero, qualunque sia l’epoca.
Attenendoci alla definizione di un dizionario, il monastero è il luogo di abitazione di un gruppo di monaci o di monache. Ma tale definizione è riduttiva, perché tiene conto solo della destinazione sociale degli edifici. San Benedetto considera invece il monastero da un altro punto di vista, secondo una visione di fede che modifica considerevolmente la prospettiva. Per lui il monastero è «casa di Dio», e quindi luogo di ospitalità per chiunque vi si presenti, soprattutto il povero e lo straniero.
– Che cosa fonda questa visione in san Benedetto?
La Regola ci dà la risposta: «L’abate e la comunità intera laveranno i piedi di tutti gli ospiti e dopo il saluto si dirà il versetto: “Dio, abbiamo ricevuto il tuo amore in mezzo al tuo tempio”» (Regola 53,13). Ciò significa che ogni comunità monastica non è «per se stessa» nel monastero, ma per Dio. Il monastero è la casa di Dio. La comunità che vi abita non può farne una sua proprietà privata. La comunità vive nel monastero per assicurare la gestione in nome di Dio e offrire a chiunque passi ciò che essa stessa ha ricevuto: non per sé solo, ma per gli altri.
Il monastero è chiamato dunque a essere prefigurazione del mondo nuovo che il Cristo è venuto a instaurare. La missione di ogni comunità monastica è quella di offrire uno spazio di comunione, un luogo di riconciliazione; di rendere già visibile il regno di Dio, in cui non ci saranno lotte fratricide né esclusioni. Il monaco, poiché non accoglie a suo nome, ma in nome di Dio, dovrebbe – con i suoi atteggiamenti, le sue parole, il suo sguardo – far percepire la presenza del Cristo.
San Benedetto apre il capitolo 53 della Regola con un’ingiunzione molto forte: «Tutti gli ospiti che arrivano al monastero saranno ricevuti come il Cristo, perché dirà un giorno: “Sono stato vostro ospite e voi mi avete accolto”». Troviamo qui un riferimento esplicito alla scena del giudizio finale tratteggiata in Matteo, al capitolo 25. Un riferimento che è molto caro a tutta la tradizione anteriore.
Questo percorso di fede, che permette di identificare l’ospite con Cristo, è molto profondo in san Benedetto e si trova a essere del tutto in accordo con la sentenza dell’abate Apollon, perché Benedetto giunge a dire: «Si testimonierà a tutti gli ospiti un grandissimo rispetto. Con l’inchino della testa o anche con una prostrazione di tutto il corpo si adorerà in loro il Cristo che si riceve» (Regola 53).
– Quanto detto è vissuto oggi nei vostri monasteri? Come va intesa l’ospitalità ai nostri tempi?
Oggi, l’afflusso dei visitatori e degli ospiti è forte in tutti i monasteri. Un tempo terra di asilo per le persone erranti, o sosta per ritemprare il pellegrino, il monastero è divenuto ai nostri giorni luogo di ritorno alla fonte per chi cerca Dio o per colui che aspira a un riposo del cuore. Il tipo di domanda cambia, la vocazione all’accoglienza dei monaci rimane e si sviluppa.
In un mondo in costante cambiamento, alle prese con tensioni e ritmi estenuanti, oggi più che mai il monastero deve esercitare la sua vocazione di essere un luogo di pace e riconciliazione. Ogni persona, qualunque siano le sue origini, le sue convinzioni filosofiche, religiose o politiche, deve sentirsi accolta in tutta libertà e discrezione. Per questo, cristiani di confessioni diverse, ma anche persone di altre religioni, possono incontrarsi e confrontarsi nel rispetto delle loro differenze.
La testimonianza di una comunità permanente di accoglienza e di preghiera può essere uno stimolo prezioso per le persone che condividono il meglio di ciò che la stessa comunità può offrire con il suo silenzio, la sua liturgia, la sua pace. Ma la comunità che accoglie riceve anch’essa dall’ospitalità più di quello che offre. A contatto con le persone che accoglie, e che spesso si attendono molto da essa sul piano spirituale, la comunità monastica prende coscienza delle esigenze del suo compito e delle sue responsabilità nella vita della Chiesa.
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