Un lavoro lungo quarantaquattro anni. È il tempo profuso per portare a termine l’Opera omnia del beato Antonio Rosmini - Serbati (1797-1855). Ora, con l’uscita (domani 24 febbraio) degli Scritti autobiografici: Diari (Città Nuova, pagine 918), l’ultimo dei sessantasei volumi dell’Opera omnia, si chiude l’impegnativa pubblicazione degli scritti in edizione nazionale e critica, iniziata sotto la supervisione di Michele Federico Sciacca (1908-1975) nel settembre del 1974 (la prima opera, vol. 38, dell’edizione nazionale Il linguaggio teologico, a cura di Antonio Quacquarelli, fu pubblicata nel 1975; è invece del 1979 la fusione tra l’edizione nazionale e l’edizione dei padri rosminiani).
«Preferisco parlare di “opera omnia”, piuttosto che di “edizione critica”, - spiega Giuseppe Lorizio, dell’Università Lateranense, fra i maggiori esperti di Rosmini - perché si tratta di un tentativo che presenta risultati non omogenei quanto a scientificità del prodotto. E per dimensione scientifica intendo attenzione filologica e storiografica, la cui qualità dipende dalla preparazione e dalle caratteristiche dei curatori dei singoli scritti e dal momento in cui sono stati pubblicati a partire dal 1979». Si tratta di un esito inevitabile, aggiunge Lorizio, «anche perché, come in più occasioni in sede di comitato scientifico sottolineò padre Umberto Muratore, nello spirito autenticamente rosminiano dell’antiperfettismo l’obiettivo era quello innanzitutto di mettere a disposizione i testi in modo che ci troviamo di fronte non a un punto di arrivo, ma a una miniera ancora aperta, dai cui ulteriori scavi si potranno trarre nuovi fecondi risultati».
Certo, oggi i grandi “minatori” scarseggiano: «Le difficoltà che i curatori hanno dovuto affrontare hanno riguardato soprattutto il reperimento delle fonti, in particolare quelle patristico-medievali, ma anche quelle moderne, per cui spesso si è gettata la spugna, evitando di indicare i testi nelle edizioni citate da Rosmini e accontentandosi di approssimativi riferimenti ai titoli delle opere pubblicate successivamente. Una scelta da un lato di comodo, dall’altro di compromesso, probabilmente inevitabile. Del resto, ci sarebbe stato bisogno di specialisti, ad esempio patrologi e medievisti, per produrre un risultato maggiormente “scientifico”». E comunque il problema, prosegue Lorizio, «ha riguardato non solo le fonti, ma i testi stessi. Mi sembra a tal proposito emblematica la vicenda dell’opera più conosciuta di Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, pubblicata in questa collana nel 1981, ma per la quale è stato necessario il lavoro dell’allora collega Nunzio Galantino (San Paolo 1997) per donare agli studiosi il testo nella forma ultima voluta dall’autore. Successivamente, cioè nel 1998, la seconda edizione nell’Opera omnia ha tentato di porre rimedio al problema, ma l’edizione Galantino resta a tutt’oggi quella più accreditata e autorevole». La vicenda è significativa «perché mostra il contesto dinamico in cui dobbiamo situarci, onde aprire orizzonti di ricerca e di riflessione, piuttosto che alimentare la pigrizia intellettuale di chi incautamente potrebbe dire “ormai abbiamo l’edizione critica!” per esimersi dallo scavo archivistico. Naturalmente tale lavoro sarà possibile solo nella misura in cui si dia una gestione trasparente e non autarchica del materiale d’archivio da parte di chi ne ha la responsabilità».
Gli orizzonti futuri riguarderanno innanzitutto le tematiche e la speculazione rosminiana nella sua attualissima inattualità. « La disposizione delle opere è stata improntata (assumendo indicazioni tratte dallo stesso autore) a una visione epistemologica e teoretica dei contenuti delle stesse. Oso pensare che, mentre tale tensione sistematica consegna al proprio tempo l’immane tentativo di generare un pensiero cristiano, anzi cattolico, nella modernità compiuta, un approccio genetico-diacronico, sempre comunque possibile, sarebbe più fecondo per svegliare e alimentare l’attenzione dei nostri contemporanei verso questo geniale pensatore». Dopodiché il lavoro dovrà alimentarsi: «Da un’attenzione particolare a non considerare i settori epistemici in cui si suddividono e classificano gli scritti di questa edizione come compartimenti stagni, per il semplice fatto che ad esempio la teologia e la politica risultano trasversali e determinanti anche in opere non strettamente teologiche o di filosofia politica. Questo perché il genio rifugge dagli schematismi e non solo filosofa o teologa, ma semplicemente pensa. E Dio sa quanto bisogno di pensiero vi sia nella Chiesa e nella società».
Pertanto, conclude Lorizio, «non solo gli ambienti ecclesiastici, sempre più sordi rispetto alla speculazione teologico-filosofica in quanto prevalentemente impegnati nel sociale, ma la cultura diffusa e accademica del nostro Paese dovrebbero salutare con gratitudine (e magari con opportune iniziative) il compiersi dell’impresa titanica della pubblicazione dell’Opera omnia di colui che, insieme a Vincenzo Gioberti, si può considerare il più grande teologo e filosofo italiano del XIX secolo. Non a caso, riferendosi certamente a Rosmini, la Fides et ratio, al n. 59, scriveva che nell’Ottocento cattolico “ci fu chi organizzò sintesi di così alto profilo che nulla hanno da invidiare ai grandi sistemi dell’idealismo”, aprendo così la strada al superamento della condanna e alla beatificazione».
«Preferisco parlare di “opera omnia”, piuttosto che di “edizione critica”, - spiega Giuseppe Lorizio, dell’Università Lateranense, fra i maggiori esperti di Rosmini - perché si tratta di un tentativo che presenta risultati non omogenei quanto a scientificità del prodotto. E per dimensione scientifica intendo attenzione filologica e storiografica, la cui qualità dipende dalla preparazione e dalle caratteristiche dei curatori dei singoli scritti e dal momento in cui sono stati pubblicati a partire dal 1979». Si tratta di un esito inevitabile, aggiunge Lorizio, «anche perché, come in più occasioni in sede di comitato scientifico sottolineò padre Umberto Muratore, nello spirito autenticamente rosminiano dell’antiperfettismo l’obiettivo era quello innanzitutto di mettere a disposizione i testi in modo che ci troviamo di fronte non a un punto di arrivo, ma a una miniera ancora aperta, dai cui ulteriori scavi si potranno trarre nuovi fecondi risultati».
Certo, oggi i grandi “minatori” scarseggiano: «Le difficoltà che i curatori hanno dovuto affrontare hanno riguardato soprattutto il reperimento delle fonti, in particolare quelle patristico-medievali, ma anche quelle moderne, per cui spesso si è gettata la spugna, evitando di indicare i testi nelle edizioni citate da Rosmini e accontentandosi di approssimativi riferimenti ai titoli delle opere pubblicate successivamente. Una scelta da un lato di comodo, dall’altro di compromesso, probabilmente inevitabile. Del resto, ci sarebbe stato bisogno di specialisti, ad esempio patrologi e medievisti, per produrre un risultato maggiormente “scientifico”». E comunque il problema, prosegue Lorizio, «ha riguardato non solo le fonti, ma i testi stessi. Mi sembra a tal proposito emblematica la vicenda dell’opera più conosciuta di Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, pubblicata in questa collana nel 1981, ma per la quale è stato necessario il lavoro dell’allora collega Nunzio Galantino (San Paolo 1997) per donare agli studiosi il testo nella forma ultima voluta dall’autore. Successivamente, cioè nel 1998, la seconda edizione nell’Opera omnia ha tentato di porre rimedio al problema, ma l’edizione Galantino resta a tutt’oggi quella più accreditata e autorevole». La vicenda è significativa «perché mostra il contesto dinamico in cui dobbiamo situarci, onde aprire orizzonti di ricerca e di riflessione, piuttosto che alimentare la pigrizia intellettuale di chi incautamente potrebbe dire “ormai abbiamo l’edizione critica!” per esimersi dallo scavo archivistico. Naturalmente tale lavoro sarà possibile solo nella misura in cui si dia una gestione trasparente e non autarchica del materiale d’archivio da parte di chi ne ha la responsabilità».
Gli orizzonti futuri riguarderanno innanzitutto le tematiche e la speculazione rosminiana nella sua attualissima inattualità. « La disposizione delle opere è stata improntata (assumendo indicazioni tratte dallo stesso autore) a una visione epistemologica e teoretica dei contenuti delle stesse. Oso pensare che, mentre tale tensione sistematica consegna al proprio tempo l’immane tentativo di generare un pensiero cristiano, anzi cattolico, nella modernità compiuta, un approccio genetico-diacronico, sempre comunque possibile, sarebbe più fecondo per svegliare e alimentare l’attenzione dei nostri contemporanei verso questo geniale pensatore». Dopodiché il lavoro dovrà alimentarsi: «Da un’attenzione particolare a non considerare i settori epistemici in cui si suddividono e classificano gli scritti di questa edizione come compartimenti stagni, per il semplice fatto che ad esempio la teologia e la politica risultano trasversali e determinanti anche in opere non strettamente teologiche o di filosofia politica. Questo perché il genio rifugge dagli schematismi e non solo filosofa o teologa, ma semplicemente pensa. E Dio sa quanto bisogno di pensiero vi sia nella Chiesa e nella società».
Pertanto, conclude Lorizio, «non solo gli ambienti ecclesiastici, sempre più sordi rispetto alla speculazione teologico-filosofica in quanto prevalentemente impegnati nel sociale, ma la cultura diffusa e accademica del nostro Paese dovrebbero salutare con gratitudine (e magari con opportune iniziative) il compiersi dell’impresa titanica della pubblicazione dell’Opera omnia di colui che, insieme a Vincenzo Gioberti, si può considerare il più grande teologo e filosofo italiano del XIX secolo. Non a caso, riferendosi certamente a Rosmini, la Fides et ratio, al n. 59, scriveva che nell’Ottocento cattolico “ci fu chi organizzò sintesi di così alto profilo che nulla hanno da invidiare ai grandi sistemi dell’idealismo”, aprendo così la strada al superamento della condanna e alla beatificazione».
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