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Papa Luciani: il nuovo beato nella biografia di Preziosi In libreria "Il sorriso del Papa", sul Pontefice dei 33 giorni

 © ANSA

(ANSA) - ROMA, 30 AGO - la storia di un Papa che in appena trentatré giorni ha lasciato un segno indelebile nella storia della Chiesa. La beatificazione di Albino Luciani, il "Papa del sorriso" - domenica 4 settembre in Piazza San Pietro da parte di papa Francesco -, riporta all'attenzione del mondo intero la figura di un uomo di fede e di Chiesa che seppe fare della sua vita un capolavoro di umiltà, di tenacia, di spirito di servizio e di amore per tutti.    Nel suo "Il sorriso del Papa. La vita di Albino Luciani e i trentatré giorni di Giovanni Paolo I" (Edizioni San Paolo 2022, pp. 288, euro 22,00), da ieri in libreria, Antonio Preziosi, con un racconto di stile giornalistico, ricostruisce dettagli ed episodi della vita di Albino Luciani e del pontificato di Giovanni Paolo I, che fu pastore della Chiesa universale per pochissimo tempo, ma seppe tracciare una via ancora attuale con la forza del suo esempio di vita e del suo proverbiale sorriso.

Una biografia aggiornata e attenta a tutti gli aspetti della figura del Pontefice che regnò solo per un mese: teologo, pastore, padre conciliare, uomo di intensa e per alcuni aspetti innovativa spiritualità. L'autore, Antonio Preziosi è giornalista, saggista e scrittore. Attualmente è direttore di Rai Parlamento. A lungo corrispondente del servizio pubblico da Bruxelles, ha svolto per anni l'incarico di inviato speciale seguendo i principali avvenimenti di politica interna e internazionale. Ha diretto anche Radio Uno, Giornale Radio Rai e Gr Parlamento. Studioso di questioni religiose e vaticane, è stato inoltre Consultore del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. Per Edizioni San Paolo ha pubblicato nel 2021 "Il Papa doveva morire", una ricostruzione inedita e intensa dell'attentato a Giovanni Paolo II e delle sue conseguenze, dentro e fuori la Chiesa. (ANSA).

Intervista. Alex Cittadella: «Nel cielo delle Alpi la verità dell'uomo»

 

A colloquio con lo storico e scrittore friulano: «Chi ha vissuto queste valli ne ha sempre tratto cultura e insegnamento. Oggi lo sfruttamento e la crisi ambientale ci dicono che non è più così»

Lo scrittore Alex Cittadella

Lo scrittore Alex Cittadella

«Un mondo affascinante e fantastico», quello delle Alpi, osservato con l’occhio indagatore dello storico ma anche con lo sguardo incantato di un bambino: sin dall’infanzia Alex Cittadella, 42 anni, docente nelle scuole superiori e dottore di ricerca in Storia moderna al Dipartimento di studi umanistici e del patrimonio all’Università di Udine, ha iniziato ad amare le montagne grazie alla madre friulana e al papà bellunese. «Le Alpi in particolare, e la natura in generale, sono sempre state una passione nutrita dal legame affettivo, ma anche estetico: faccio camminate in tutte le stagioni, anche se prediligo quelle meno turistiche. E poi sono lo sfondo che vedo ogni giorno dalle finestre, un punto di riferimento costante», racconta Cittadella nella sua casa a Pasian di Prato, in provincia di Udine. Da pochi giorni è in libreria con Il cielo delle Alpi. Da Ötzi a Reinhold Messner, edito da Laterza in collaborazione con il Cai (Club alpino italiano), che definisce «un’intensa camminata lungo il tempo e lo spazio per immergersi nel clima alpino attraverso lo sguardo di alcuni affascinanti personaggi storici». Infatti l’autore racconta come protagonisti del passato e del presente abbiano convissuto con le trasformazioni dell’arco montuoso. E lo fa scegliendo di assumere in alcuni capitoli la prima persona, tanto che le tappe percorse so- migliano a scalate interiori colme di empatia.

Perché questa scelta stilistica?

Una sfida d’immedesimazione che può piacere o no, insolita anche per l’editore, con l’obiettivo di avvicinare questi personaggi ai lettori, di sentirli più contemporanei, facendo capire il loro modo di costruire e di approcciarsi alla natura, che si ricostruisce dai reperti ritrovati. Quando ho cominciato a scrivere, mi è venuto di raccontare dall’interno Ötzi (vissuto nel Neolitico oltre 5.300 anni fa e ritrovato mummificato nel ’91 nella Val Senales, ndr), ma anche il condottiero cartaginese Annibale che valicò le Alpi nel 218 a.C. e il popolo dei Walser che ancora vive a 2 mila metri sul Monte Rosa. Entrando nelle loro epoche, volevo esprimere la soggettività del loro vissuto nel percepire la natura esterna, il loro rapporto intimo e più genuino con l’ambiente circostante, nella loro veste di testimoni diretti di un mondo prezioso, enigmatico e affascinante. Sotto quel cielo delle Alpi che, per chiunque percorra la nostra più elevata catena montuosa in auto, in bicicletta o a piedi, lungo il fondovalle, sui costoni o sulle cime, appare come una finestra sull’infinito, uno sguardo sull’eternità.

Ha scelto di indagare anche le Alpi di scrittori come Mario Rigoni Stern e Pierluigi Cappello, di esploratori come Walter Bonatti e Reinhold Messner, di artisti come Leonardo da Vinci.

Le Alpi sono al centro della riflessione pittorica di Leonardo: con lui si apre un percorso nuovo di attenzione e osservazione del clima alpino dal punto di vista naturalistico e artistico. Gli faranno da successori de Saussure con il suo approccio radicalmente scientifico e William Turner, che si innamorerà così profondamente dei paesaggi e del clima da trascorrere diversi soggiorni di studio sulle Alpi, producendo centinaia di disegni, acquerelli e opere artistiche in un periodo segnato dalle imprese di Napoleone Bonaparte. Giovanni Segantini, con la sua resa della luce e dei colori dell’Engadina e dei Grigioni, è autore di alcuni fra i dipinti di alta montagna più innovativi e rilevanti della storia dell’arte. Fino all’amore di Rigoni Stern per l’Altipiano di Asiago e ai versi di Pierluigi Cappello, capaci di esprimere l’interiorità più profonda del cielo sopra le Alpi Carniche. Gli alpinisti Bonatti e Messner hanno levato un grido intenso e accorato in difesa dell’ambiente primigenio della maestosa catena, mantenendo sempre un atteggiamento di assoluto rispetto nei suoi confronti.

Di recente la tragedia della Marmolada ci ha messo davanti agli effetti drammatici del riscaldamento globale: questa presa di coscienza c’è stata anche in passato per altri disastri ambientali? Pecchiamo di scarsa lungimiranza?

Gli ultimi 150 anni hanno determinato una svolta epocale nella storia climatica della Terra: l’azione dell’uomo sta determinando il più repentino e profondo mutamento climatico che il nostro pianeta abbia conosciuto da centinaia di migliaia di anni. Rispetto ai cambiamenti precedenti, ora il ruolo dell’uomo è assolutamente accertato e determinante. In passato, invece, le persone guardavano alle vette con una reverenza quasi sacrale, avevano un rapporto rispettoso e diretto con l’ambiente anche quando i ghiacciai avanzavano distruggendo pascoli e paesi: si sentivano parte di quell’ambiente e capivano che se lo avessero utilizzato male avrebbero avuto delle conseguenze negative. Sapevano di dover mantenere alti pascoli e boschi in determinate condizioni perché le generazioni successive potessero utilizzarli. Nell’epoca contemporanea concretamente si fa poco, nonostante i dati siano devastanti, come i climatologi ci ricordano da 40-50 anni. Eppure sfruttiamo il territorio per un profitto immediato, senza ragionare a livello comunitario. Spero molto che a partire dalle scuole si incida sulle nuove generazioni, più sensibili nei confronti dell’ambiente.

Avvenire

Calvario. Monte sacro di Domodossola. Ediz. illustrata (Italiano) Copertina rigida

 



Libro: L’idea del divino? L’umanità non può farne a meno

 
MASSIMO GIULIANI Avvenire

Non c’è niente di meno religioso di Dio, come mostra la storia della sua idea. È un’idea copernicana, ci spiega lo studioso e artista ebreo Stefano Levi Della Torre: da sempre fa girare l’umanità attorno a Dio e non viceversa, a dispetto del fatto che ogni epoca, e ogni religione, pretendono di averne miglior conoscenza di altre epoche e di altre fedi. Ed è un’idea paradossale, proprio perché viene rivendicata da chi ci crede, per abbracciarla, e da chi non ci crede, per rifiutarla. In un breve ma denso libro che porta il titolo, nudo e crudo, Dio (appena uscito da Bollati Boringhieri, pagine 160, euro 12,00), Levi Della Torre getta un vertiginoso sguardo sintetico, e laico, sul lungo percorso della cultura occidentale nell’idea del divino, senza la quale semplicemente la nostra cultura non esisterebbe. E forse solo uno sguardo laico poteva tentare di scrutare un’idea così emotivamente carica, muovendo non “dal punto di vista di Dio” – attizzando gli scontri delle ermeneutiche religiose e teologiche – ma “dal punto di vista storico”, della storia del pensiero, dell’arte, della scienza, della politica.

Non v’è ambito umano nel quale l’idea di Dio non abbia giocato un ruolo centrale, una funzione, una pressione, uno stimolo, un ostacolo, un’ispirazione. Sebbene Dio non stia in nessuna delle idee che di lui ci facciamo, nel complesso esse costituiscono un sistema copernicano che ci “decentra” continuamente, obbligandoci ad andare, ogni volta, un po’ più in là, oltre ogni categoria, sempre altrove.

Come dice il racconto biblico su Elia, Dio non era nel terremoto, non nel fuoco, non nel vento, ma in una sottile voce di silenzio. La fiction rabbinica ha trovato un modo originale per esprimere questa strana, impossibile ubicazione del divino, lo ha chiamato semplicemente haMaqom, il Luogo.

Condizione di tutto, non è in nessuna parte; è l’idea dell’insieme che prevale sui dettagli, insiste Levi Della Torre in forza della sua esperienza di pittore e architetto (un tutto che regge anche quando i particolari difettano); è la forma di pensiero che contiene e spiega ogni altro pensiero, e l’essere e il nulla; di essa hanno bisogno i dotti non meno che gli ignoranti, seppure per ragioni e in modi diversi. Non è questo un libro che cerchi la provocazione. Piuttosto, è la reazione alla più provocatoria delle idee dell’umanità, come un nodo che tenga avvinte tutte le questioni. La lista di chi se ne è occupato coincide con il fior fiore dei filosofi e degli scienziali, dei poeti e degli artisti. In cima alla lista Levi Della Torre pone l’amato Dante, naturalmente, che è a un tempo teologo e poeta, seguito da Platone e Leopardi, Montale e Qohelet, Primo Levi e Giobbe, Pascal e Ovidio... certo una lista che ha ben poco senso, poiché nessuno che davvero “pensi” può fare a meno dell’idea di Dio. Ma queste riflessioni sul divino non mirano a essere un moderno bignami, sono soprattutto pensieri sul presente, che tentano di dire “dove siamo” in quest’epoca di veloci cambiamenti (a tutti i livelli) e di profonde innovazioni (ovvie, quelle tecnologiche). Quasi che l’idea di Dio fosse una cartina di tornasole per valutare i precipitati antropologici cui stiamo assistendo, un po’ da attori e un po’ da spettatori. Siamo usciti da un’epoca di proporzionalità, afferma l’intellettuale milanese, in cui si poteva ancora misurare il rapporto tra cause ed effetti, e siamo entrati in pochi decenni in un’epoca di sproporzioni, nella quale ogni misurazione è saltata, facendoci perdere certezza o garanzia che la storia sia sotto il controllo delle nostre capacità razionali. Siamo, forse di nuovo, in un’età di incertezze e di imponderabili, «l’età – scrive Levi Della Torre – in cui il minuscolo atomo ha prodotto la devastazione più grande». Per commentarla ecco il geniale sommo poeta: “Poca favilla gran fiamma seconda” (Paradiso 1,34). In siffatto scenario come può sorprendere che l’idea di Dio sia più attuale e più necessaria di prima? Se essa esprime e catalizza e metabolizza, al contempo, ogni istanza di razionalità e di irrazionalità, più che mai essa sarà evocata e invocata in questo frangente storico, sarà ripresa e rilanciata, sarà usata e forse ri– abusata (come in passato). Non aveva profetizzato Martin Heidegger che “ormai, solo un dio ci può salvare”? Non era, quello heideggeriano, un dio con la D maiuscola. Era solo una forma retorica, che faceva l’occhiolino agli dèi della Grecia, allontanatisi nel frattempo dalla cucina di Eraclito per aleggiare sul Führer del Terzo Regno germanico e il suo grottesco

Gott mit uns. Ma poco importa, l’uso dell’idea divina non è vietabile a nessuno, neppure ai criminali, individui o sistemi politici che siano.

Ma conoscere evoluzione, fortuna e sfortuna di quest’idea, ciò di cui non sapremmo pensarne una maggiore, come spiega la famosa prova ontologica di Anselmo d’Aosta, può oggi esserci di aiuto: è l’umanità che misura se stessa su quest’idea, è il bene che si autotutela dietro ad essa, ma è anche il nostro senso cririco e la nostra capacità di resistenza al male che ne escono rafforzati. L’idea più laica, l’idea più universale. More hebraico monstrata.

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Nuovo libro: "La scuola italiana di spiritualità. Da Rosmini a Montini"

Tra la data di nascita del beato Antonio Rosmini (1797) e la data di morte del santo pontefice Paolo VI (1978) intercorrono poco meno di duecento anni. Fulvio De Giorgi, docente di Storia dell’educazione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, è convinto che nel corso di questi due secoli sia possibile rinvenire una linea che permette a buon diritto di individuare, come indica il titolo di un suo ponderoso volume, La scuola italiana di spiritualità. Da Rosmini a Montini (Morcelliana, pagine 726, euro 35,00). Nei vari capitoli del libro l’autore presenta le componenti fondamentali di tale scuola, innanzitutto identificando in Rosmini l’origine feconda di essa e in Montini la matura conclusione, e cogliendo appieno l’importanza del ruolo di raccordo esercitato in tale contesto dal cardinale Giulio Bevilacqua (1881–1965). Pagine particolarmente illuminanti sono dedicate agli apporti recati dalla spiritualità francescano– cappuccina e da quella filippina. Questa ricostruzione viene condotta anche attraverso la descrizione di varie figure ec- clesiali, la cui importanza non sempre è stata adeguatamente riconosciuta e valutata. De Giorgi individua nel giusto mezzo rosminiano la cifra caratteristica della scuola italiana di spiritualità: «Il Roveretano – egli scrive – infatti rifiutava gli estremismi religiosi: rifiutava cioè, da una parte, il giansenismo ribelle … ma rifiutava anche, dall’altra, certo razionalismo gesuitico ottocentesco ». Il grande pensatore di Rovereto non poteva approvare il pessimismo antropologico insito nella lezione di Giansenio, «ma non poteva neppure accettare l’opposta, anzi, contrapposta posizione di coloro che per difendere la libertà umana, la esaltavano a tal punto da negare ogni guasto della volontà dell’uomo». De Giorgi sottolinea alcuni tratti peculiari del rosminianesimo che, come egli afferma, si ritroveranno lungo tutto il percorso che condurrà il lettore sino alla seconda metà del Novecento. «Le caratteristiche fondamentali della spiritualità rosminiana – si legge nel testo – sono la semplicità della preghiera, un’umiltà radicale, l’importanza attribuita alla Parola di Dio, all’esegesi patristica e alla vita liturgica, un’ecclesiologia di comunione e di libertà, la necessaria presenza della prospettiva escatologica». A queste componenti della spiritualità del beato Rosmini, De Giorgi affianca tre grandi realtà che le sintetizzano e le esprimono appieno: la bellezza, che informò e permeò tutta l’esperienza religiosa del Roveretano; la centralità del cuore, che l’amore divino rinnova completamente; infine, il primato di quella carità che, non casualmente, dà il nome all’Istituto fondato da Rosmini.


È questo, secondo De Giorgi, il terreno fecondo su cui germogliò, si nutrì e crebbe la scuola italiana di spiritualità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA Fulvio De Giorgi ricostruisce una linea peculiare che dal beato roveretano risale fino a papa Paolo VI, condotta sul “giusto mezzo” tra opposti estremismi e radicata nell’eredità cappuccina e oratoriana

Un libro sul patrimonio Unesco dei Sacri Monti presentato in Vaticano



Il volume “I Sacri Monti. Un patrimonio Unesco tra Piemonte e Lombardia” è stato presentato ufficialmente all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Il libro, edito da Silvana Editoriale, illustra, attraverso le spettacolari immagini appositamente realizzate da Marco Beck Peccoz, i testi storici di Elena De Filippis e l’autorevole introduzione di Antonio Paolucci, i sette Sacri Monti piemontesi (Belmonte, Crea, Domodossola, Ghiffa, Oropa, Orta e Varallo) e i due lombardi (Varese ed Ossuccio).
“I Sacri Monti,  pregevoli esempi di architettura del paesaggio – ha sottolineato l’assessore alla Cultura della Regione Piemonte Vittoria Poggio -, sono sorti sotto la spinta della fede cattolica delle comunità locali e raccolgono, al loro interno, sintesi estremamente significative di aspetti devozionali, artistici, culturali e naturalistici. Essi rappresentano per il Piemonte una rete di 7 complessi monumentali e altrettanti santuari di richiamo ben distribuiti sul territorio, che l’amministrazione considera  come un faro per lo sviluppo e la rivitalizzazione dei territori in chiave culturale e turistica, senza trascurare le comunità locali”.
 “I Sacri Monti. Un patrimonio Unesco tra Piemonte e Lombardia” è indubbiamente una fondamentale iniziativa di promozione della conoscenza di un patrimonio complesso e straordinario che ancora necessita di azioni che lo conducano ad essere anche maggiormente riconosciuto. Oggi – ha concluso l’Assessore – attraverso le immagini fotografiche è possibile raggiungere la finalità di rendere maggiormente riconoscibili i tratti di questi magnifici complessi, assecondando altresì quella che è una caratteristica peculiare del patrimonio dei Sacri Monti, ovvero la capacità di suscitare emozione e intimo coinvolgimento in chi guarda”.
tratto da http://www.piemontetopnews.it 

I santuari della diocesi di Novara



Alla scoperta dei luoghi di fede, di devozione e di arte.
Guida storico/artistica che presenta i più dei cento santuari e Sacri Monti presenti nel vasto territorio della diocesi di Novara che si estende dalla pianura fino a raggiungere il Monte Rosa, comprendendo i laghi Maggiore, d’Orta e di Mergozzo. Prefazione di mons. Franco Giulio Brambilla. 
È possibile acquistare il libro direttamente a santuari.novara@gmail.com o richiedendolo presso qualsiasi libreria.

Il Segretario della Cei Galantino vicino a Rosmini


di: Armando Matteo
Risale a Sofocle la sentenza per la quale l’uomo è in verità ciò che di più misterioso, inquietante e difficile da afferrare nella sua totalità che esista al mondo. Ed è per questo che da sempre l’uomo pone a se stesso la domanda circa la propria vera identità. “Chi sono io?” e “chi è l’uomo?” sono in verità interrogativi ai quali nessuno può sfuggire. Siamo sempre un mistero a noi stessi; forse la cosa più misteriosa per noi stessi.
E dall’invocazione stupita del salmista che chiede all’Onnipotente: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal 8,5) sino ai penetranti versi del prigioniero Dietrich Bonhoeffer: «Chi sono io? Spesso mi dice questo o quello/ che dalla cella in cui sono tenuto/ esco disteso, lieto e risoluto/ com’esce un signore dal suo castello./ Chi sono? (…)/ Sono io veramente ciò che gli altri dicono di me?/ O sono soltanto ciò che io stesso conosco di me? (…)/ Chi sono? Questo sono o sono quello?/ Sono oggi uno, domani un altro?/ Sono io l’un l’altro insieme? (…)/ Chi sono? Por domande così da soli è a scherno mio./ Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo io sono, o Dio!» – la  ricerca di una risposta alla domanda «chi è l’uomo?» è stata al centro della speculazione umana, filosofica, teologica e al cuore delle infinite espressioni dell’arte. Quella risposta, infatti, non è cercata per un mero fine intellettuale, per mettere a posto un problema tra tanti: quella risposta è desiderata perché da essa dipende l’orientamento che si dona alla propria esistenza, il valore che si riconosce o meno alla relazione con gli altri e con il mondo che ci circonda, il sentimento con il quale ci volgiamo a considerare le potenzialità ed i limiti di cui è impastata la nostra vita. E questo vale per ieri come vale per oggi.
Anche nel nostro tempo, infatti, dietro scelte differentissime intorno ad un medesimo tema, a sostegno di tesi assolutamente inconciliabili su aspetti del vivere e del morire si possono trovare diverse «antropologie», cioè diverse risposte all’interrogativo che ci ricorda che l’uomo è un grande mistero. D’altro canto la verità dell’uomo, della sua autentica identità, «è una verità non semplicemente da comunicare, ma anche da vivere».
Queste ultime parole appartengono al vescovo Nunzio Galantino, attuale segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Il suo è un volto molto noto soprattutto per le sue nette prese di posizione pubblica in merito ai temi della giustizia e della necessaria solidarietà verso le persone più svantaggiate dai sistemi politici ed economici attuali. È pure nota la sua particolare vicinanza di stile e di orientamento ecclesiale e pastorale a papa Francesco, che non a caso lo ha chiamato dalla terra di Calabria, dove da poco tempo monsignor Nunzio Galantino aveva iniziato il suo ministero episcopale, a ricoprire appunto l’attuale importante compito di segretario generale della CEI.
Se tutto questo è noto e non solo nella cerchia del mondo cattolico, meno noto è l’altra parte della storia del vescovo Galantino. Ci riferiamo alla sua lunga carriera di docente di antropologia filosofica e alla sua feconda opera di scrittore di dense e profonde opere proprio in merito a quel grande e affascinante mistero che da sempre l’uomo è a se stesso.
A gettare luce su questo aspetto della storia di vita dell’attuale Segretario Generale della Cei ci pensa ora un bel saggio a firma del sacerdote calabrese Pietro Groccia. Si tratta di un testo lungamente preparato, scorrevole nella lettura, chiaro nell’impostazione e dotato di un apparato bibliografico imponente.
Nell’Introduzione, dopo aver ricordato le provocazioni teoretiche ed etiche della cultura contemporanea alla riflessione dedicata all’uomo, Groccia presenta il piano del suo saggio con le seguenti parole: «Nel primo capitolo saranno esaminate le caratteristiche peculiari dei riduzionismi antropologici tra modernità e postmodernità; nel secondo prenderemo in esame l’antropologia fenomenologica-personalistica di Nunzio Galantino; nel terzo considereremo la “storicità, l’incarnazione – corpo e corporeità – e vocazione”, che il nostro chiama dimensioni/costanti filosofiche dell’universo personale; nel quarto sarà la sfida educativa orientata ad un nuovo progetto di persona a focalizzare l’interesse della nostra ricerca».
Non essendo certo qui possibile una presentazione sistematica dell’intero saggio di Groccia, abbiamo scelto di segnalare alcuni punti particolarmente significativi proprio per conoscere più da vicino lo sfondo culturale che anima ancora oggi l’azione pastorale del vescovo Galantino.
Partiamo dalle matrici filosofiche della sua antropologia personalistica. Groccia ne individua ben tre: «In primis la storicità come fedeltà alla terra e al vissuto, che si ispira alla filosofia di Bonhoeffer (…); poi il pensiero personalista, che risente dell’influsso di Mounier, Buber, Lévinas, Maritain e Guardini». Una terza matrice è poi individuata nella vicinanza di Galantino a Rosmini: «Io non so ipotizzare – scrive sempre Groccia – come Galantino si sia avvicinato a Rosmini, divenendone uno dei più accreditati interpreti contemporanei, posso solo supporre che sia stato l’interesse per la persona rinvenuto in Bonhoeffer, probabilmente, a farlo guardare retroattivamente al patrimonio esistenzialistico-personalistico-intellettualistico del filosofo roveretano. In effetti, guardare a Rosmini ha significato per il nostro ritrovare la traccia di un’argomentazione declinata come espressione dell’integrità della persona. Il tutto del suo pensiero, infatti, è che l’individuo è persona».
Il secondo punto che vorremmo segnalare è la priorità che la categoria di relazione possiede per Galantino nello sforzo teoretico di pensare l’uomo, cioè di andare fino in fondo a coglierne l’identità. Ricostruisce Groccia così questo dato: «Galantino tratteggia, così, un progetto relazionale dove l’esistenza dell’altro, il suo esistere, il suo “essere vicino a me”, sarà il nuovo della filosofia antropologica. Perciò, ogni forma di ripiegamento su sé stessi è, per il nostro, contraria alla dimensione personale. Ciò equivale a dire che partecipare all’umanità dell’altro uomo significa considerare l’uomo-persona come una relazione di relazioni, nel senso che l’ontologia dell’umano è sempre un’ontologia relazionale. Infatti, non c’è antropologia originale né opportunità di effettiva realizzazione umana, se non dove sia riconquistata la pienezza del rapporto con altri (…). L’uomo, quindi, è colui che costitutivamente si trascende per incontrare l’altro, che, dunque, partecipa all’essere altrui senza annientarlo, in una relazione che Galantino, riecheggiando Buber, non esiterebbe a chiamare agapica».
Il terzo ed ultimo elemento che vorremmo richiamare all’attenzione del lettore riguarda la stretta correlazione che, come Groccia approfonditamente coglie ed evidenza, esiste per Galantino tra prassi educativa e antropologia, ovvero di come sia oggi recuperare proprio sul terreno assai sfidato della cura concreta delle nuove generazioni una concezione unitaria della persona. Commenta ed esplicita Groccia: «solo ciò che è persona è veramente educabile, solo ciò che è educabile è veramente persona. Potrebbe sembrare un gioco di parole, ma non lo è, perché un educatore si mostrerà all’altezza del suo ruolo nella misura in cui si mostra in grado di credere costantemente anella possibilità dell’educando di diventare a sua volta persona-relazione. In tale esperienza la relazione esprime l’inter-esse che sorge tra l’educatore e l’educando nelle forme di un incontro teso a ricomporre la presenza dell’altro in una dialettica vivente di interpretazioni, significati e sensi che configurano l’avventura educativa verso il progressivo rappresentarsi e costituirsi di un’identità».
Ci sembra di poter affermare che già questi brevi spunti possano sollecitare la lettura di questo saggio dedicato all’antropologia personalistica di Nunzio Galantino; un saggio poi arricchito dallaPresentazione di Giorgio Campaninidalla Prefazione di mons. Francesco Savino e dallaPostfazione di Gennaro Cicchese.
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